Una delle peggiori definizioni di True Detective che mi è capitato di leggere in rete è questa: «True Detective è una serie per persone intelligenti che non ha niente di intelligente. Magari è inutile confrontare le serie ai romanzi, ma che i personaggi abbiano un minimo di complessità, contraddizioni, o anche solo dei cazzo di hobby che li rendano interessanti, forse non è chiedere troppo».
Se non fosse per il classico hipsterismo saccente che gronda da tutta la recensione, al grido di “Tutto quello che piace alla gente fa schifo perché piace alla gente”, si potrebbe giurare che un giudizio così tranchant e superficiale sia stato espresso proprio dall’americano medio Martin Hart (Woody Harrelson). Non viene difficile immaginarselo davanti al televisore con una birra in mano mentre commenta perplesso la serie di cui è protagonista: «Io non andrei in giro a sparare certe stronzate», direbbe, ancora una volta disgustato dalla filosofia solo apparentemente profonda del suo partner Rust Cohle (Matthew McConaughey).
Ma il fatto è che True Detective non è una serie solo apparentemente profonda, lo è davvero. Se fra il banale buonsenso da uomo comune di Marty e l’ombrosa e disturbante visione del mondo di Rust, scegliamo segretamente di appoggiare quest’ultima è perché sottopelle vi abbiamo sempre concordato. Rust ribadisce apertamente quello che nessuno di noi ha mai osato dirsi ad alta voce.
Gli psicologi definirebbero il nostro comportamento come “negazione”, il seppellire negli strati più inaccessibili della nostra psiche le verità più terrorizzanti sulla nostra esistenza, come la certezza della morte o, per quanto mi riguarda, il fatto che probabilmente non vedrò mai il Toro vincere uno scudetto.
Pur di dimenticarci le nostre paure, preferiamo mentire a noi stessi e agire come Marty, «un tipo normale con un cazzo enorme» secondo la sua stessa descrizione di sé, un uomo la cui immagine pubblica coincide con quella del premuroso padre di famiglia, del buon poliziotto, dell’uomo devoto a Dio, dell’amico con cui bere qualcosa quando il turno di lavoro finisce, ma la cui immagine privata è tutt’altro che edificante: è un adultero, sempre assente da casa, e soprattutto reprime dentro di sé una rabbia che periodicamente esplode e che lui sfoga sul collega, sulla moglie, sull’amante, su Reggie LeDoux o su due ragazzotti andati a letto con la figlia.
Rust trova la forza di alzarsi la mattina perché si considera un testimone; Marty perché non ha altra scelta, perché la vita lo ha portato, suo malgrado, a interpretare un ruolo (il marito, il padre, il detective) che lui, ricoprendosi di bugie, recita con sempre maggiore fatica e che, alla fine, inevitabilmente si dissolve. Il meccanismo della negazione ha così condotto Marty prima a perdere la sua famiglia e, infine, a lasciare il lavoro.
Marty è un perfetto esemplare di quella che Jean-Paul Sartre chiamerebbe “malafede”. Secondo il filosofo francese nel mondo moderno siamo tutti condannati a essere liberi, a esercitare la nostra volontà, a scegliere ciò che vogliamo essere, ma lo scioglimento delle catene della servitù passata non è stata una vera liberazione, bensì una condanna: ora che siamo liberi, infatti, non sappiamo più quello che vogliamo, non sappiamo più chi siamo. Sentiamo il peso di questa responsabilità e, per evitarla, ci rifugiamo negli stereotipi: sono quelli che Marty tenta, fallendo, di interpretare, ripetendo a sé stesso che la finzione che ha costruito nella sua testa rappresenti la realtà e la sua volontà. Non lo è.
Per questo, quando Rust sostiene che «la coscienza sia un tragico passo falso dell’evoluzione. Siamo troppo consapevoli di noi stessi. La natura ha creato un aspetto della natura separato da sé stessa. Siamo creature che non dovrebbero esistere per le leggi della natura», Marty liquida laconicamente la riflessione dicendo: «Mi sembra una gran bella stronzata».
Negazione. Malafede.
In una delle poche pause dalla sua ipocrisia, Marty si paragona al coyote dei cartoni animati che continua a correre anche oltre il dirupo, fingendo di avere ancora il terreno sotto i piedi. Si commisera, ma fa finta che vada tutto bene.
Al contrario di Marty, Rust è perfettamente consapevole della sua identità. Sa chi è, è autentico, come scriveva Sartre. Tuttavia, l’autenticità ha un prezzo e obbliga a barcamenarsi di continuo tra il dolore di aver compreso che il mondo è privo di uno scopo e il senso di libertà per essersi elevato al di sopra degli schemi prefissati «Rifiutare la programmazione», per usare le parole di Rust.
Ai più questa visione della vita potrebbe apparire pessimista, ma, in termini filosofici, esattamente come afferma Rust, è semplicemente realista.
Il pessimista non crede che il mondo sia governato dal caos, che non ci sia una legge suprema, che non esista un fine più grande per assegnare un significato alle nostre azioni. Il pessimista lo accetta.
L’ottimista, invece, secondo il punto di vista pessimista, si crogiola nell’illusione che quanto accade intorno a lui rientri in un ordine più elevato.
In termini filosofici, così, la contrapposizione tra pessimista e ottimista si trasforma nell’opposizione tra realista e (ingenuo) idealista.
Lo stesso Sartre rifiutò l’accusa rivolta all’esistenzialismo di essere una filosofia della disperazione e della contemplazione, poiché indurrebbe gli uomini a rassegnarsi alla realtà. «L’esistenzialismo è un umanismo», ribatté, «non c’è anzi dottrina più ottimista, perché il destino dell’uomo è nell’uomo stesso», perché l’uomo è responsabile delle sue azioni e saranno queste a definire chi sarà. Ma è proprio il fardello della sua libertà, della sua responsabilità di fronte a sé e a tutta l’umanità, che rischia di gravarlo e di farlo crollare, come succede a Marty.
Anche per questi motivi Rust è un detective migliore di Marty. Marty si sorprende incessantemente di quali vette di perversa crudeltà può raggiungere la mente umana, e, mano a mano che il caso progredisce, se ne sente sempre più sopraffatto, come se il sogno creato dalla sua visione consolatoria della vita si stesse lentamente frantumando. Rust, invece, in quanto realista, si mantiene razionale e riesce meglio del suo partner a collegare i vari pezzi fra loro.
Ma, a un certo punto, anche Rust viene vinto da una forza più grande di lui. Il caso Dora Lange sembra essersi chiuso con la morte di Reggie LeDoux, il fabbricante di droghe sintetiche. Tuttavia, Rust sa che i veri colpevoli sono ancora in libertà.
Per un breve intervallo di tempo, fra il 1995 e il 2002, Rust prova senza troppa convinzione ad “accettare la programmazione”, instaurando una relazione stabile con una donna e piazzando finalmente qualche sedia e un paio di mobili nel suo appartamento desolatamente spoglio.
La parentesi di normalità, però, dura poco. I fantasmi del passato fanno precipitare Rust in un vortice di degradazione e autodistruzione: finisce a lavorare su dei pescherecci in Alaska e poi in un bar malfamato, e trascorre il resto delle sue giornate a ubriacarsi. Il caso Dora Lange lo perseguita ancora.
Cos’è successo a Rust? Com’è potuto passare da una condizione di realismo, per quanto venata di malinconia e angoscia, a una di totale rinuncia alla vita, di nichilismo passivo? Rust ha incontrato il mostro («E, come in molti sogni, c’è un mostro che ci attende alla fine»), o – meglio – ha visto in faccia lo “spirito di gravità” di cui parlava Nietzsche.
In un passo di Così parlò Zarathustra, il cammino di Zarathustra è ostacolato da un nano che rappresenta lo “spirito di gravità”, una criptica espressione con cui il filosofo tedesco intendeva una forza minacciosa e ostile che spinge l’uomo verso il basso, impedendogli di salire verso l’alto, dove finalmente troverebbe la liberazione dai dubbi, dal passato, dalla morale comune, dalla decadenza moderna.
«Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo», dice il nano a Zarathustra, il quale replica: «Tu, spirito di gravità! Non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove ti trovi».
In True Detective LeDoux è lo spirito di gravità. In ginocchio, come il nano di Così parlò Zarathustra, LeDoux mormora: «Il tempo è un cerchio piatto», e Rust gli risponde gelido, come il suo alter ego Zarathustra: «Cos’è? Nietzsche? Chiudi quella cazzo di bocca!».
Rust/Zarathustra non nega che il tempo sia un cerchio, una ruota che gira e nella quale passato, presente e futuro si confondono. Negarlo vorrebbe dire assecondare una concezione che assimila il tempo a una linea retta con un inizio e una fine, una linea che procede secondo una logica predeterminata verso una meta, uno scopo. E per i nichilisti e gli esistenzialisti non c’è uno scopo calato dall’alto come nella religione cristiana, che promette una ricompensa o una punizione alla fine della vita (la nostra linea retta). «Se l’unica cosa che rende corretta una persona è la prospettiva di una ricompensa divina, allora, fratello, quella persona è un pezzo di merda», è l’inequivocabile stigmatizzazione della religione professata da Rust nel secondo episodio, mentre assiste alla predica di un pastore.
Rust/Zarathustra zittisce LeDoux/il nano perché questi interpreta in modo fatalistico il tema nietzschiano dell’eterno ritorno e vuole imprigionare l’uomo nella circolarità del tempo: se tutto è già accaduto ed è già stato vissuto, infatti, che senso avrebbe rivivere lo stesso momento all’infinito? Se non facciamo altro che ripercorrere i nostri errori, dove finisce la nostra libertà di scelta?
In questo modo, l’incontro con lo spirito di gravità incarnato da LeDoux atterrisce Rust e lo abbatte, attraendolo verso il basso, dove la volontà del singolo cede il passo a un destino che non si può cambiare.
«Quante volte abbiamo avuto questa conversazione?», chiede, nel corso dello stesso episodio, ai due agenti che lo interrogano. «Se non si possono ricordare le vite passate, se non si possono cambiare le nostre vite… Questo è il destino segreto e terribile di tutte le vite. Siamo intrappolati dentro quell’incubo in cui continuiamo a svegliarci».
Rust è insomma caduto prigioniero della circolarità del tempo e improvvisamente percepisce un senso soverchiante di futilità. Questa è la vera ragione della sua spirale di alcolismo.
Rust non ha un cazzo di hobby (cit.) perché è un nichilista della peggior specie, perché non vuole indulgere in quel «cumulo di presunzione e ottusa volontà» che è il mondo (come nella scena in cui balla controvoglia con un’amica di Maggie), perché non ha bisogno di passatempi per sapere chi è, perché è consapevole che il suo austero stile di vita cozza con la morale comune, perché rifiuta qualsiasi autorità (dai capi della polizia a Dio stesso) e soprattutto perché disprezza a tal punto la vita da desiderare il suicidio, solo che gli manca la predisposizione per metterlo in atto.
C’è, però, anche un’altra ragione che trattiene Rust dal procedere mano nella mano verso l’estinzione di massa dell’umanità: la compassione. La sua ossessione per il lavoro di detective non è soltanto il frutto di una sfida intellettuale o di un fascino malato per il sangue e l’occulto, nonostante gli indizi disseminati dallo sceneggiatore Nic Pizzolatto ci inducano per un po’ a sospettare dello stesso Rust (si pensi alla sconcertante disinvoltura con cui Rust torna a vestire i panni del criminale-tossico “Crash”).
Il nostro nichilista in divisa, infatti, è dotato di un’intensa empatia, si immedesima di continuo nelle vittime e sembra quasi partecipare alle loro sofferenze. La sua capacità di entrare nella testa altrui lo rende talmente abile nell’ottenere una confessione da farlo apparire quasi spietato, come quando suggerisce a una madre che ha ucciso il figlio di suicidarsi prima che venga incarcerata. La sua però non è crudeltà, bensì compassione.
Ed è poi un umanissimo slancio di compassione di fronte alla nuova serie di omicidi rituali del 2012 che smuove Rust dalla sua statica rassegnazione e lo sprona a indagare ancora una volta sul caso.
Arriviamo così alla discesa infernale nella città perduta di Carcosa, nella terra del Re giallo, dove ad attendere i due detective c’è un nuovo mostro, Errol Childress. Qui le citazioni letterarie e cinematografiche si sprecano: dal colonnello Kurtz di Apocalypse Now al Norman Bates di Psycho, che conserva il cadavere mummificato della madre, dai racconti horror di Lovecraft e Bierce (oltre, ovviamente, al solito Thomas Ligotti, principale fonte di ispirazione per i creatori della serie) fino al Re in giallo di Robert Chambers, una finta opera teatrale intrisa di pura follia.
Qualcuno è rimasto deluso dal finale della serie, con quella battuta finale («la luce sta vincendo») che può suonare come una clamorosa presa per i fondelli: “Per otto puntate, Rust, ci hai smaronato con il tuo pessimismo cosmico e i tuoi aforismi sul nulla, e alla fine banalmente ti converti? E per di più lo fai mentre sei conciato come Gesù Cristo durante la Passione, ferito, zoppicante, con una veste bianca sbrindellata e i capelli lunghi? Rust, non sarà mica che dopo aver visto l’orrore pagano di Carcosa con i suoi sacrifici umani e aver vissuto un’esperienza pre-morte, hai sentito il bisogno disperato di credere in qualcosa e di trovare Dio?”.
Parrebbe un’obiezione sensata, ma, in realtà, non si tratta di una semplice rivelazione divina in punto di morte o di una forma di riscatto per alleviare la frustrazione di non aver preso tutti i responsabili della catena di delitti.
Dopo essere precipitato in un baratro di rassegnazione a causa dello spirito di gravità, Rust è sul punto di soccombere. Si trova nella stessa condizione del pastore che Zarathustra vede rotolarsi convulsamente per terra a causa di un serpente nero che gli penzola dalla bocca, un’altra trasposizione dello spirito di gravità. «Mordi!», gli grida Zarathustra. Il pastore azzanna la testa del serpente, la sputa e poi comincia a ridere. In virtù del suo atto di coraggio e della sua affermazione di sé, egli non è più un uomo, ma un superuomo, circonfuso di luce.
Anche se il tempo è un cerchio e tutto è destinato a ritornare e ripetersi, anche se la vita è costellata di sofferenze, anche se sembra che non esista uno scopo, alla fine Rust, come il pastore, si ribella: decide di mordere il serpente, decide di affermare la sua volontà, decide di non abbandonarsi al caso, ma di scegliere il proprio destino in modo da provare il desiderio di voler rivivere ogni attimo. «Non si può riporre speranza se non nell’agire e (…) la sola cosa che consente all’uomo di vivere è l’azione», scriveva Sartre. Solo l’uomo può salvare sé stesso, scegliendo uno scopo per cui vivere (il bene).
Sia Rust sia Marty, così, da antieroi, l’uno per la sua tetra rassegnazione, l’altro per la sua “malafede”, si tramutano in eroi.
Quella di Rust non è quindi una conversione religiosa. È piuttosto la presa di consapevolezza che alla fine di ogni sogno, nell’abisso più profondo, non c’è solo un mostro, ma anche l’amore. Non importa quanto male e quanta oscurità pervada ancora il mondo, perché la luce sta vincendo.
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