L’erba del vicino sembra sempre più verde di quella del nostro giardino. Guardando al mercato del lavoro, agli strumenti di contenimento della disoccupazione e alla flessibilità, in entrata e in uscita, l’erba dei nostri vicini di Eurolandia è davvero molto più verde di quanto lo sia nel giardino Italia. Certo, non tutto è oro quel che luce ma ci sono comunque molti motivi per invidiare i lavoratori tedeschi, olandesi, danesi o austriaci.
Il caso che esamineremo è proprio quello della Germania, paese verso il quale negli ultimi anni è ripresa l’ondata migratoria degli italiani a caccia di un lavoro e di un futuro migliore. Il mercato del lavoro tedesco, almeno dal punto di vista strutturale, non è molto diverso da quello italiano; trattasi di un mercato rigido (il più rigido proprio dopo il nostro) nel quale, a differenza dei paesi scandinavi o degli Usa (dove ogni anno il 40% degli occupati sperimenta almeno una volta un periodo di disoccupazione, seppure breve) il datore di lavoro non può licenziare con facilità il dipendente. Il tasso irrisorio di disoccupazione in Germania (5,7%) è più che altro dovuto ad un’economia particolarmente forte.
Le forme di tutela reale dei lavoratori tedeschi presentano molti punti in comune con il sistema italiano regolato dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, così come modificato dalla riforma Fornero (prima della riforma c’era, tout court, il reintegro). Il datore di lavoro può licenziare soltanto qualora vi sia una giusta causa – quando cioè il lavoratore pone in essere una condotta tale da minare il rapporto di fiducia – o per ragioni economiche (riorganizzazioni o modificazioni aziendali). Il giudice può decidere per il reintegro del lavoratore laddove il licenziamento si riveli illegittimo ma, per contro, il datore di lavoro è ammesso a provare l’impossibilità di proseguire il rapporto professionale. Soltanto in questo caso il giudice opta allora per il pagamento, in favore del dipendente licenziato, di un indennizzo il cui importo è stabilito dalla legge.
La differenza fra la Germania e l’Italia risiede piuttosto nella gestione della disoccupazione. Il lavoratore che viene licenziato non si trova dall’oggi al domani senza un reddito e questo grazie all’Arbeitsamt, una via di mezzo tra un ufficio di collocamento e un’agenzia del lavoro. Il funzionamento è molto semplice. Il lavoratore (anche straniero e da poco residente nel paese) che abbia maturato un’esperienza lavorativa di almeno sei mesi in Germania, certificata da regolare contratto di lavoro subordinato, può accedere ai sussidi previsti dallo Stato. Nel periodo di disoccupazione lo Stato si farà infatti carico di sostenere il lavoratore rimasto senza reddito erogandogli un sussidio sufficiente a coprire le spese per l’affitto e per le utenze domestiche (energia elettrica, gas, acqua e telefono); il lavoratore, dal canto suo, dovrà dimostrare di volersi dare da fare e una volta preso in carico dall’Arbeitsamt dovrà, utilizzando le dotazioni messe a sua disposizione, inviare il curriculum a tutte le offerte di lavoro possibili.
Che cosa succede se il lavoratore riceve un’offerta non consona alle sue ambizioni o velleità? Ha la possibilità di rifiutare per un numero limitato di volte, esaurite le quali lo Stato sospenderà il sussidio e il soggetto disoccupato si troverà così costretto a cercare, per conto suo, un lavoro alla svelta. La copertura dei sussidi è garantita dai contributi e dalle imposte che il datore di lavoro versa allo Stato e in generale dal gettito fiscale.
Si tratta di una forma di quella Flexsecurity o Flexicurity sperimentata con successo nei paesi della Scandinavia già a partire dagli anni Ottanta; un giusto mix di flessibilità e sicurezza. Uno dei paesi faro nell’applicazione di questo strumento è la Danimarca dove fino a qualche anno fa i lavoratori rimasti senza impiego potevano beneficiare del sussidio e quindi rinunciare ad offerte di lavoro non allettanti per un massimo di cinque anni. Oggi non è più così, i disoccupati possono rifiutare fino ad un massimo di tre anni ma già al termine del primo anno vengono caldamente invitati ad accettare le offerte o a frequentare corsi di formazione/ricollocazione.
A chi resta senza lavoro lo Stato corrisponde un sussidio pari al 90% dello stipendio di un lavoratore dell’industria (1500-1600 euro lordi al mese). Scaduto il termine valido per rifiutare le offerte il sussidio, come accade in Germania, viene sospeso e sostituito dal sussidio sociale, molto basso e pari ad una pensione minima. É proprio nei paesi scandinavi che la flexicurity trova la sua più compiuta applicazione. A quelle latitudini infatti, ogni mese il 30-40% dei lavoratori sperimenta la disoccupazione e la tenuta del sistema è garantita proprio dai consistenti sussidi sociali erogati dallo Stato; sussidi che consentono di fare fronte ai periodi di disoccupazione, solitamente molto brevi.
In Italia, al di là di qualche sporadica sperimentazione (il Friuli Venezia-Giulia aveva introdotto forme di flexicurity), degli studi giuslavoristici del professor Pietro Ichino e delle buone intenzioni di Matteo Renzi nella campagna per le Primarie del centrosinistra non si è mai approdati a nulla di concreto. Il governo tecnico guidato da Mario Monti, almeno negli intenti, voleva gettare le basi per l’introduzione di questo sistema ma ha portato a casa soltanto la riforma Fornero, peraltro molto discussa e criticata dalle parti sociali, che contempla anche modifiche dell’art. 18 atte a consentire una maggiore facilità di licenziamento in caso di riorganizzazione aziendale.
Tornando alla Germania, nelle prossime settimane vi racconteremo l’esperienza di Emiliano, un giovane torinese emigrato un anno fa a Berlino, che beneficerà a breve dell’assistenza dell’Arbeitsamt.
Alessandro Porro