
In un programma di Fazio, non ricordo più quale, Silvio Orlando disse una cosa geniale: “Da ragazzini non avremmo mai creduto possibile che la DC e il PCI si sarebbero messi insieme in un partito (il PD, NdR): e che insieme non sarebbero riusciti a vincere mai un’elezione”. A pensarci, in effetti, è da non dormirci la notte: due storie che insieme hanno storicamente rappresentato quasi il 70% degli elettori per decenni oggi non riescono più a raggiungere neanche il 30%. Come è possibile?
È possibile perché il PD ha preso, da quelle due storie, quasi solo i difetti e pochissimi dei pregi. Qualche settimana fa, prima di poter prevedere il rapido precipitare degli eventi, avevo cercato di evidenziare i problemi non risolti dal punto di vista ideologico all’interno del Partito Democratico, provando a indicare una possibile via d’uscita; oggi provo a concentrarmi sul tema dei temi di questi giorni: il dibattito all’interno del partito.
Partiamo con un po’ di storia: DC e PCI avevano una dinamica assolutamente distinta e distante della gestione del dibattito interno e della composizione dei “conflitti”. La Democrazia Cristiana è stata storicamente divisa nelle famose “correnti”. Anzi, è forse più corretto definire la DC come una federazione di partiti più che un partito vero e proprio. Le diverse correnti erano anche molto distanti tra loro, ma riuscivano a trovare sempre una sintesi. Questo, principalmente, per due motivi:
- in pieno spirito “ecumenico”, si riusciva a puntare su quanto si condivideva piuttosto che focalizzarsi sulle divergenze tra le varie fazioni;
- (certamente più importante) vi era la possibilità di spartirsi il potere. Senza falsi moralismi: quando la prospettiva è di andare ad “occupare” un dicastero è più facile soprassedere su alcuni punti programmatici, parliamoci chiaro.
Il Partito Comunista Italiano, invece, era un grande corpaccione unico. Nato e cresciuto sostanzialmente nella clandestinità, per lunghi anni l’impostazione del PCI è rimasta quella dell’associazione cospirativa, che poco o nulla doveva far trapelare all’esterno. Va da sé che in questa logica le correnti erano fuori discussione: vi era infatti il famoso centralismo democratico. Il Partito dettava la linea e compito della classe dirigente era indirizzare tutto il corpaccione del partito verso la direzione scelta.
Questo vuol dire che all’interno del PCI non si discutesse? Assolutamente no, anzi. Lo scontro era durissimo, feroce e ideologico – si possono citare casi a profusione, ma non è il caso di annoiarvi. L’esempio di scuola che vale per tutti fu lo scontro tra Giorgio Amendola e Pietro Ingrao, all’indomani della morte di Togliatti (e, quindi, sostanzialmente per la successione).
Amendola era portatore di un’idea, che potremmo definire “riformista”, di unione di tutti i partiti di sinistra per costruire un grande partito unico dei lavoratori a (per dirla con parole del 2013) “vocazione maggioritaria”; Ingrao aveva un’impostazione più prettamente “rivoluzionaria”, che non prevedeva alcun compromesso con altre forze e puntava più allo scontro che all’incontro con gli altri partiti. La battaglia fu durissima e si trovò una faticosa sintesi nella figura del più anziano Luigi Longo. Longo avrebbe dovuto traghettare il Partito verso la futura segreteria di Enrico Berlinguer (vicino a Ingrao); gli ingraiani, da canto loro, in quel convulso 1964 dovettero cedere sull’elezione del Presidente della Repubblica (il PCI infatti appoggiò il Social Democratico Giuseppe Saragat, un candidato sgradito alla sinistra del PCI ma molto gradito agli “amendoliani”).
Nonostante tutto, il PCI ne uscì compatto pur non avendo dicasteri da spartire. Questo perché quel gruppo dirigente era unito innanzitutto da un fortissimo legame umano: un legame creatosi durante la lotta partigiana, gli anni in clandestinità e i combattimenti – in senso letterale – fianco a fianco, mettendo a rischio la vita. Quand’anche lo scontro ideale fosse stato feroce, lo spirito unitario avrebbe prevalso: quella generazione aveva condiviso troppo per potersi spaccare su questioni di principio.
Il PD è il figlio stortignaccolo di queste due modalità di ricerca della sintesi. Ora che è così platealmente “esploso”, si può dire che il partito fondato da Veltroni nel 2007 ha accorpato i principali difetti di DC e PCI. Da un lato infatti ha ereditato l’incredibile “balcanizzazione” della Balena Bianca – non si contano infatti le correnti che compongono la caleidoscopica compagine democratica; dall’altro ha ripreso la ferocia dello scontro ideologico che si viveva nel PCI. In tutto questo però non si è riusciti ad ereditare nessuno dei metodi di ricomposizione dei conflitti propri dei due partiti della Prima Repubblica. Anzi.
Il pluralismo, che certamente è un valore in ogni struttura democratica, è diventato sinonimo di caos: capita così che dopo qualunque “scontro” (che sia un congresso, una primaria o una decisione spinosa) la minoranza che esce sconfitta difficilmente si adegua alle decisioni della maggioranza. Al contrario: prende il via un lavoro di logoramento delle posizioni maggioritarie. È capitato più di una volta a livello nazionale – basti pensare alla fronda “ex DS” fatta a Veltroni – e a livello locale: clamorosa è stata la vicenda delle primarie di Genova in cui addirittura un’esponente del PD si candidò contro una sua compagna di Partito, sindaco in carica.
Insomma: pare evidente che, non potendo contare sul metodo di “spartizione” del potere tanto caro alla DC (almeno, non con queste lune), al PD servirebbe recuperare un po’ di centralismo democratico. O, se vogliamo, inventarsi un centralismo democratico 2.0, per tentare di uscire da questa crisi che lo vede ad un passo, pare, dallo scioglimento.
Domenico Cerabona
@DomeCerabona