Questa vuole essere un’ode alla parola, un elogio della sua forza e della sua bellezza.
Ci sono pagine della nostra letteratura che suscitano emozioni difficili da descrivere. Non so se capita anche a voi, ma a me qualche volta succede di provarle. Avverto una sorta di brivido lungo la schiena e ho la sensazione di vivere, proprio in quell’istante, un momento importante. E mi sento fortunato a poter godere di quelle parole.
Sono certo che vi sia una forte componente soggettiva, o, per meglio dire, una componente estrinseca al testo in questo godimento. L’idea, il giudizio e le aspettative che ciascun lettore nutre nei confronti dell’autore che sta leggendo giocano un ruolo fondamentale. Sapere, ad esempio, di trovarsi di fronte a una pagina che ha fatto la storia della letteratura influisce certamente sulle emozioni che si provano. Tuttavia credo vi sia anche una bellezza intrinseca al testo, che dipende da una parte dalla pura sonorità prodotta da quella successione di parole, dall’altra dal fatto di realizzare, nell’attimo esatto della lettura, che la costruzione retorica è perfetta e ogni termine al posto giusto: ciascuno è frutto di una scelta ponderata dell’autore, ciascuno è per lui l’unico in grado di comunicare quel messaggio, quell’ideale, quello stato d’animo, quella sensazione. Così, dalla concatenazione dei diversi termini nascono proposizioni che saranno per sempre di proprietà di quell’autore e di nessun altro, espressioni e perifrasi con le quali egli riesce, in poche parole, a trasmettere la profondità del proprio mondo, delle proprie idee, delle proprie emozioni, delle proprie frustrazioni e dei propri affanni. E ci dice tantissimo di sé, al di là del tempo e dello spazio.
Tutto ciò appare amplificato a dismisura quando le pagine in questione sono di natura autobiografica, quando, ad esempio, si tratta di una lettera che ha avuto un’importanza enorme per le interpretazioni di un autore come Niccolò Machiavelli, che oggi è certamente (insieme con Gramsci), il pensatore italiano più studiato nel mondo.
Credo che lettera che il Segretario fiorentino scrive a Francesco Vettori il 10 dicembre 1513 susciti il genere di emozioni che ho cercato (certamente fallendo) di descrivere. È qui che Machiavelli annuncia di aver composto un piccolo opuscolo De principatibus e ci dice perché lo ha fatto, con quale metodo e a chi lo vuole dedicare. È quindi grazie a questa lettera che in questo 2013 possiamo festeggiare, con le relative mostre, pubblicazioni ed eventi curati dall’Istituto Treccani, i 500 anni dell’opera forse più strumentalizzata di ogni tempo. Ma al di là del significato storico, ogni volta mi riscopro sorpreso della bellezza di questa lettera, della sua meravigliosa musicalità, della sua capacità di svelarci non solo la profondità del pensatore politico, ma anche la quotidianità dell’uomo Machiavelli.
Prima incarcerato e torturato, poi allontanato da Firenze perché sospettato di aver preso parte a una congiura anti-medicea, dal marzo del 1513 egli è confinato nella sua umile casa dell’Albergaccio in Sant’Andrea in Percussina, non lontano da San Casciano in Val di Pesa, lungo la strada che da Firenze porta a Siena. Lui che ha trascorso dodici anni come Segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica di Firenze, redigendo relazioni e visitando corti e ambasciate in giro per l’Italia e per l’Europa, è ora costretto a dedicarsi al commercio del legname, nella continua speranza che i Medici lo richiamino per dargli un lavoro, per assegnargli un incarico, uno qualsiasi, fosse anche fargli «voltolare un sasso». Consumato dall’attesa e desideroso di tornare a dedicarsi alla vita politica, in questa lettera Machiavelli racconta all’amico Vettori, ambasciatore fiorentino a Roma, in che modo trascorre le sue giornate, impegnato nelle attività più semplici e umili.
E la narrazione, spesso non priva di ironia e di autocommiserazione, ci restituisce tutta la sua umanità quando leggiamo che, dopo aver sbrigato gli affari, Machiavelli si reca ad una fonte, con un libro sotto il mantello, «o Dante o Petrarca, o uno di questi poeti minori, come Tibullo, Ovidio e simili» e leggendo dei loro amori ricorda malinconicamente i propri.
E non possiamo non sorridere quando ci racconta che, recatosi all’osteria, dopo pranzo, con l’oste, «un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai», «m’ingaglioffo per tutto dí giuocando a cricca, a trich-trach»; e tra mille contese e parole ingiuriose «il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano». È forse difficile immaginare Machiavelli, l’autore del Principe, impegnato in attività tanto triviali, ma sono anche questi aspetti della sua vita a creare il fascino imperituro del personaggio. Più semplice, ma altrettanto gustoso è immaginarlo invece tornare a casa e entrare nel suo studio, vederlo spogliarsi di «quella veste cotidiana, piena di fango e di loto», indossare «panni reali e curiali» per dedicarsi alla lettura dei classici, per entrare «nelle antique corti delli antiqui huomini», che lo ricevono amorevolmente. E rivolgendo loro domande di natura politica (e «quelli per loro humanità mi rispondono»), per quattro ore Machiavelli non prova «alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro».
Sono pagine stupende, di quelle che chiunque sappia cogliere la bellezza della nostra lingua deve leggere almeno una volta nella vita. E se voi non lo avete fatto, fatelo e se le avete lette troppi anni fa, magari ai tempi della scuola, rileggetele. Perché non farlo vorrebbe dire precludersi emozioni che solo la lettura di un classico (con tutto l’immaginario che gli ruota attorno) e la lingua fiorentina di cinque secoli fa possono dare.
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