KK – Una storia di poker

Mi alzo per mettere gli scuri alla finestra… Il sole sta per sorgere proprio di fronte al mio sguardo, sono quasi le sei di mattina. Mi stropiccio gli occhi leggermente assonnati, e torno a sedermi di fronte allo schermo del mio pc, dove due videate di due dirette streaming mi portano lontano dalla mia stanza e dal letto sfatto da ieri e che oggi non toccherò.

Nove giocatori sono seduti intorno a un tavolo, circondati da luci blu; assieme a loro un dipendente del Rio Hotel & Casino, Las Vegas, Nevada. Un organizzatore presenta i personaggi, mentre loro si siedono di fronte alle loro montagne di chips, ognuno con l’intento di scalare quella di tutti gli altri, fino a quando ne rimarrà uno solo.

Poche ore fa guardavo la nazionale di calcio italiana strappare un meritato pareggio in una partita dalle mille emozioni contro i campioni in carica della Spagna.

Ma qui non sta per accadere nulla di simile… nel poker non c’è posto per i pareggi.

Il torneo è il numero 17 dell’edizione 2012 delle World Series of Poker, la disciplina è il Texas Hold’em, il massimo che si può puntare è pari all’importo già nel piatto (in gergo tecnico pot limit). L’iscrizione è 10.000 dollari.

Chi segue il poker conosce quasi tutti i nomi al tavolo; chi non lo segue, probabilmente nessuno: Hoyt Corkins, Shaun Deeb, Matt Marafioti, Daniel Weinman, Andy Frankenberger, Ali Eslami, Manuel Bevand, Alexander Venovski.

E naturalmente, Phil Ivey.

Phil Ivey, 35 anni: l’alieno

Gli occhi della calca assiepata attorno alle transenne sono solo per lui, solo per lui le parole dei due commentatori le cui voci sovrastano quella del floorman che in tonalità monocorde descrive le azioni al tavolo affinché siano chiare a tutti, giocatori e spettatori.

Phil Ivey, il “Tiger Woods del poker”, a detta di molti è il giocatore più forte al mondo, il più completo. Imbattibile in tutte le diverse discipline, con tutte le modalità di puntata, tanto in torneo quanto in cash-game, sia dal vivo sia online.

Non si può amare Phil Ivey, né si può odiarlo, come non si può amare un robot: si può solo ammirare.

Per Phil questo è il tavolo finale numero 23 alle World Series of Poker; nelle precedenti 22 occasioni, è arrivato primo otto volte: ventidue volte si è seduto con altri otto giocatori a contendersi il titolo, e ha vinto più di un terzo delle volte. Una statistica incredibile, aliena.

Il presentatore spende un fiume di parole su di lui, il pubblico applaude, lui non reagisce… è seduto al tavolo con aria indifferente, quasi annoiata, masticando un chewing gum. Due anni fa, in uno show televisivo, Phil Ivey perse un piatto da un milione e centomila dollari contro il suo storico amico-rivale Tom Dwan; una presentatrice dello show lo intervistò al termine della mano chiedendogli come si sentisse dopo una simile perdita. Phil Ivey la guardò come se fosse la domanda più stupida del mondo, e rispose: “Come sempre… oggi si perde, domani si vince, è normale”.

Un milione e centomila dollari.

Dopotutto, si tratta solo di denaro.

Altra videata, altro streaming, stesso Rio Hotel & Casino. Un’altra sala, un’altro tavolo finale.

Otto giocatori rimasti: il torneo è l’evento numero 18, la disciplina è il Seven Card Razz, l’importo delle puntate è fisso.

Qui non ci sono commentatori, la voce atona del floorman è accompagnata dal ticchettio delle chips che i giocatori manipolano nervosamente mentre pensano.

C’è del pubblico, ma in misura minore: la disciplina non garantisce la spettacolarità del Texas Hold’em, non ci sono oscillazioni, non ci sono ribaltamenti di fronte. Il vantaggio lo si acquisisce poco alla volta, con tecnica e pazienza.

Anche a questo tavolo ci sono nomi altisonanti: c’è Barry Greenstein, c’è Scott Fishmann… e poi c’è un altro Phil: Phil Hellmuth.

Non si può ammirare Phil Hellmuth: si può solo odiarlo, o amarlo.

Phil Hellmuth, 47 anni: l’umano, troppo umano

Sì, perché Phil Hellmuth è arrogante e presuntuoso. Si definisce il giocatore più forte al mondo, si incazza quando perde, insulta gli altri giocatori quando con un colpo di fortuna riescono a vincere un piatto giocato male: è l’opposto del giocatore di poker presente nell’immaginario collettivo; invece di essere freddo e controllato è collerico ed emotivo.

Tutto questo però lo rende anche maledettamente umano: una persona normale, con le sue debolezze e le sue fissazioni, che si altera quando perde proprio come farei io.

Come farebbe forse chiunque, se escludiamo Phil Ivey e quei pochi che come lui passano la vita tra scommesse folli e piatti milionari che passano di mano in mano senza soluzione di continuità.

Phil Hellmuth è “The poker brat”, il monello del poker, è la macchietta degli show televisivi sul poker, dove regolarmente viene bastonato in cash-game e pizzicato da sapienti provocatori che cercano di pungerlo nell’ego per suscitare l’esplosione che fa bene all’audience.

Phil Hellmuth di braccialetti d’oro ne ha già vinti undici nei suoi 24 anni di carriera nel poker. Il personaggio collerico ormai diventato il suo marchio di fabbrica alimenta le critiche dei suoi detrattori, che lo danno per passato remoto, e vedono i suoi braccialetti come trofei di una vecchia gloria ormai non più in grado di ripetersi. Dopotutto, di quegli undici ne ha vinti solo tre dopo l’esplosione del gioco online.

Quello però è il personaggio, la macchietta. Il vero Phil Hellmuth in torneo è un giocatore di poker maledettamente bravo, e non sono solo gli undici braccialetti a dimostrarlo.

Nel 1988 Phil arrivò per la prima volta a premio in un torneo delle World Series of Poker. Venne eliminato quando tentò un bluff contro l’allora campione del mondo, Johnny Chan: quest’ultimo lo pizzicò con una perfetta lettura, eliminandolo dal torneo (Chan quell’anno vinse il main event per la seconda volta consecutiva, il suo avversario in finale fu Erik Seidel, e la mano che vinse il torneo fu quella resa celeberrima dal film Rounders).

Qualcuno tra gli amici di Phil gli espresse il suo rammarico per l’occasione persa, che non si sarebbe più ripresentata.

Nel 1989 Phil vinse il main event, e il suo primo braccialetto. Da allora è andato a premio in totale ottantanove volte (89!), più di chiunque altro (il secondo in classifica è Men Nguyen, a quota 75), e ha partecipato a quarantasei tavoli finali. Nessun giocatore al mondo può vantare statistiche simili.

Hellmuth però non si accontenta di andare a premio, o di arrivare al tavolo finale: il suo ego ipertrofico ha fame di braccialetti d’oro. Nel 2011 per tre volte è arrivato a sfiorarlo e per tre volte si è dovuto arrendere e accontentarsi di un secondo posto, che per lui vuol solo dire essere il primo degli ultimi. Stanotte la caccia riprende.

Così le ore dal tramonto all’alba le ho trascorse di fronte al PC, seguendo le gesta dei due Phil.

Il ragazzo nero di 35 anni con l’aria annoiata, e l’iracondo caucasico di 47 anni.

L’alieno e l’umano, troppo umano.

Alle nove del mattino, entrambi erano ancora lì, ed entrambi avevano di fronte ancora solo un avversario.

Phil Ivey è arrivato al testa a testa con Andy Frankenberger, Phil Hellmuth è in finale con Don Zewin.

Il click del mouse mi fa saltare istericamente da una schermata all’altra, cercando di cogliere per entrambe il momento saliente.

Ivey è in pericolo, ha meno chips del suo avversario. Anche i campioni devono pagare il dazio alla varianza, alla fluttuazione statistica: nel Texas Hold’em quest’ultima pesa parecchio, e Ivey lo sa. Deve recuperare, deve spingere.

Deve rischiare.

Dall’altra parte invece Hellmuth sembra avere il controllo della partita, l’avversario è sempre più corto.

Hellmuth non spinge, non ha fretta. Il peso delle tre sconfitte in finale dell’anno passato darebbe stati di eccitazione a chiunque, ma il giocatore di poker oggi ha mandato a casa la macchietta televisiva.

Poi succede tutto in pochi minuti.

Frankenberger rilancia, Ivey chiama. Tre carte vengono girate sul tavolo, un 4, un 5 e un asso.

Ivey fa “check”, il suo avversario punta, Phil rilancia giocandosi tutto. “All in”, le due parole che hanno decretato il successo della variante oggi più popolare di poker.

L’avversario chiama.

Il pubblico si alza in piedi, la voce dei commentatori si fa eccitata. Ivey ha un 6 e un 7, un progetto di scala bilaterale. Frankenberger ha un asso e un jack, un punto già fatto. Vengono girate le ultime due carte. La prima è un 5. La seconda è nuovamente un 5.

Niente 8, niente 3, niente scala. L’alieno si alza, l’espressione è sempre indifferente, quasi annoiata. Stringe la mano al suo avversario e al floorman, saluta il pubblico – tutto dalla sua parte – e si allontana.

Il Rio Hotel & Casinò di Las Vegas

Dall’altra parte Hellmuth continua con pazienza la sua opera di erosione. Senza fretta, una chip dopo l’altra.

Il suo avversario, Don Zewin, lo conosce bene. Nel 1989 Zewin fu eliminato al terzo posto nel main event, lasciando il giovane Phil Hellmuth (studente di 24 anni) a fronteggiare il campione in carica Johnny Chan. La pila di chips di Zewin continua a scendere, e contemporaneamente sale la folla attorno al tavolo.

Finalmente Don Zewin decide di rilanciare, e mettere nel piatto tutto il poco che gli è rimasto.

Match Point!

Il dealer distribuisce le carte, il floorman le scandisce a voce alta per gli spettatori.

L’ultima carta viene data coperta, Phil la gira subito, è un 10.

Il punto migliore è suo, ma Zewin deve ancora girare la sua carta, e potrebbe ribaltare la situazione.

La spilla con la lentezza di una goccia di sudore lungo la guancia… l’ha vista o no? Se l’ha vista e tace, vuol dire che ha perso? Di solito far aspettare l’avversario per poi mostrare un punto vincente è considerato estremamente maleducato nel poker.

Finalmente Don Zewin sorride e guarda il suo avversario: “Go ahead… you’ve got it!” (“Vai… è tuo!”).

Ho esultato, ebbene sì. Succede, ognuno ha le sue malattie… c’è chi esulta per la squadra del cuore, io esulto per la vittoria di un giocatore nel quale mi riconosco. Umano ed emotivo.

Alla fine Phil Ivey ha mancato di un soffio il suo nono braccialetto, Phil Hellmuth ha centrato il suo dodicesimo. Così diversi, ed entrambi così forti. Diversi nell’approccio al gioco, nello stile di gioco, e anche nella vita.

Il primo ha passato due anni nell’ombra a causa di uno scandalo finanziario che ha colpito il sito di poker online di cui era socio e che lo sponsorizzava – e in parte anche a causa del divorzio milionario dalla sua ex-moglie (l’appellativo “Tiger Woods del poker” non riguarda solo l’abilità nel giocare).

Una vita sulle montagne russe, tra partite cash-game e scommesse per milioni di dollari, tutte affrontate con la stessa faccia indifferente, masticando un chewing gum o mangiando una mela. Come nel celebre tavolo finale del main event delle World Series nel 2008, quando eliminato all’ottavo posto del tavolo finale che poteva farlo entrare nella storia, uscì dalla sala continuando a mangiare la sua mela come niente fosse.

Il secondo si fa vivo due mesi all’anno per giocare le World Series e sporadicamente per partecipare a qualche show televisivo, dedicandosi nel frattempo alla famiglia. Ha voluto fosse suo figlio a consegnargli il dodicesimo braccialetto, lo ha abbracciato prima di gettarsi a terra urlando per l’emozione dopo la vittoria. E poi, confermando il suo personaggio in tutto e per tutto, ha detto all’intervistatrice: “Ho vinto perché ho giocato perfettamente, non ho fatto nessun errore”. Presunzione? Forse, ma anche verità.

E i due Phil, cosa dicono l’uno dell’altro? C’è rivalità tra il giocatore più forte del mondo e quello che si autoproclama tale?

Ovviamente c’è: negli show televisivi si sono già scontrati più volte, e Ivey quasi sempre è risultato vincitore al termine di lunghe sessioni di cash game. Ma quello non è il vero Hellmuth, quello è il personaggio televisivo. I detrattori di Hellmuth forse non lo sanno, ma Phil Ivey lo sa eccome.

Phil Hellmuth con suo figlio, al momento della premiazione

Anche Hellmuth è ben conscio dell’abilità del suo rivale. E al termine di quella che per lui è stata una lunga giornata (e serata) e che per me è stata una notte in bianco ha dichiarato: “So che Ivey è arrivato secondo, mi spiace per lui, mi è successo tre volte l’anno scorso e capisco cosa si prova. Se lui avesse vinto e io avessi perso saremmo stati 11 a 9, ora invece siamo 12 a 8. Certo, lui è molto più giovane di me, e forse un giorno mi raggiungerà: nel caso, la sfida sarà per i 25”.

Due campioni, così diversi. Uno alieno e l’altro umano, troppo umano. Oggi il terrestre ha segnato un punto, ma la battaglia è ancora lunga.

Io, nel frattempo, mi limito ad ammirare la bellezza del gioco di entrambi, e a omaggiare entrambi con questo pezzo.

“Hail to the Kings, baby!”.

Luca Romano

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