
Ero ragazzino. La geografia della mia immaginazione non aveva confini precisi. Il Sudamerica calcistico era un unico agglomerato urbano da Rosario a Montevideo, ed entrambi erano sobborghi di Baires. Stranamente, la mia immaginazione escludeva il lusofono Brasile: come se Flamengo, Santos, Sao Paulo non fossero pienamente sudamericani.
Anche il tempo era una dimensione confusa. Ghiggia, Da Costa, Montuori, Schiaffino erano per me l’epoca indifferenziata degli oriundi, nomi mitici ed eroici, senza un paese e senza un volto, relegati in un passato remoto. I palloni erano di cuoio severo; le immagini televisive erano in bianco e nero.
Del quartetto, Schiaffino fu il primo a diventare individuo. Un gingle sentito alla televisione, nei primi anni ’90: “…la genialità di uno Schiaffino”. Il mio innamoramento, assurdo e assoluto, per Schiaffino iniziò lì, molti anni prima di scoprire che quel verso fulminante faceva parte di una straordinaria canzone.
Es-ciafìno, nella meravigliosa pronuncia platense. Es-ciafino. Chissà perché, me lo immaginavo mancino, lento, elegante. La faccia triste e il passo signorile.
La storia di Schiaffino venne dopo, più bella ancora dell’immaginazione: l’infanzia a tirar calci al pallone nei campi di Pocitos. Le giovanili con il Peñarol e i lavori per guadagnarsi da vivere. I litigi, in campo e fuori, con “el Capitan” Varela. Lo scherzaccio del maracanazo ai Mondiali in Brasile del 1950, quando con un gol e una giocata per Ghiggia Schiaffino gettò nella disperazione una nazione e a un’altra fece raggiungere il cielo. La semifinale leggendaria persa contro la grande Ungheria di Puskas ai Mondiali in Svizzera nel 1954, la più straordinaria partita di pallone mai giocata al mondo fino a quel momento nella storia del football.

Il Brasile non giocherà mai più in maglia bianca
Schiaffino morì il 13 novembre 2002. Pochi mesi prima era scomparsa la moglie Angelica, unico vero amore della sua esistenza. L’Uruguay pianse il più grande giocatore della sua storia.
Andrea Donna