Paolo Piccirillo è nato in provincia di Caserta nel 1987, vive e lavora a Roma ed è per alcuni “uno dei migliori scrittori italiani under 30” («Il Piccolo»). Il suo romanzo d’esordio Zoo col semaforo, pubblicato con Gog6, è una storia dei giorni nostri che ha colpito la critica per la sua limpidezza: l’autore indaga con uno sguardo quasi feroce la vita quotidiana del casertano, raccontando l’intrecciarsi di due storie umane, quella di Carmine e quella di Salvatore, unite dalla presenza determinante di un pit bull.
Ora con il suo secondo romanzo La terra del Sacerdote, uscito lo scorso anno per Neri Pozza, Piccirillo è stato selezionato fra i dodici finalisti del Premio Strega 2014.
PARLIAMO DEL TUO ULTIMO LIBRO, LA TERRA DEL SACERDOTE. COM’È NATA L’IDEA DI QUESTO ROMANZO?
Un mio amico molisano un giorno mi ha raccontato la storia di suo nonno, un uomo silenziosissimo, che aveva l’abitudine di parlare solo a Natale e a Pasqua.
Questo aneddoto mi ha incuriosito tantissimo e mi sono messo a fare delle ricerche, ho scoperto che questo signore aveva scelto di non parlare perché si sentiva sempre molto triste, passava le sue giornate lavorando la sua terra in silenzio.
Ho indagato ancora e ho trovato delle foto degli anni ’50 in cui c’era lui in Germania, dove era andato a vivere, e in quelle foto sembrava felice. Questa è stata la scintilla, il carburante per il mio romanzo. Si può dire che sia stata la storia a venire da me.
I NOMI DEI DUE PROTAGONISTI, AGAPITO E FLORI HANNO UN VALORE SIMBOLICO?
Il nome di Agapito l’ho scelto come omaggio alla canzone di Rino Gaetano “Agapito Malteni il ferroviere”, che parla dell’emigrazione dal Sud Italia.
In un secondo momento ho anche scoperto che un paesino del Molise si chiama Sant’Agapito e questo mi ha confermato nella mia scelta.
Per Flori, che nel libro è una clandestina proveniente dall’Ucraina, ho scelto il nome di una mia amica rumena, anche per il richiamo al tema della terra.
IL LIBRO PARLA ANCHE DI CAMORRA, COME RAGAZZO CRESCIUTO A SANTA MARIA CAPUA VETERE.
CHE ESPERIENZA PERSONALE NE HAI AVUTO? È UNA PRESENZA CONCRETA NELLA QUOTIDIANITÀ DI UN GIOVANE CHE VIVE AL SUD?
A parte quei periodi in cui si scatenano le guerre di clan, con il loro consueto strascico di morti e sparatorie, a cui può capitare a chiunque di assistere o almeno di sentirne il rumore in lontananza, qui la presenza della camorra si sente soprattutto nella politica, nell’amministrazione, nella piccola gestione comunale.
La camorra non è umanizzata o quasi eroica come quella della tv e dei film, è la quotidianità della convivenza con un’amministrazione collusa.
Si vive questa situazione come la normalità. Da piccolo (era un momento di guerra fra le bande) ricordo i continui arresti, il clima da guerra civile, ma ricordo anche che quella situazione era vissuta come ordinaria. La gente non era colpita, queste guerre non sono sentite come straordinarie, ma come normali.
L’USO DEL DIALETTO E DEL TEDESCO DENTRO IL TESTO SENZA SOLUZIONE DI CONTINUITÀ HA UN VALORE EMBLEMATICO?
Già in Zoo col semaforo avevo messo in scena personaggi anziani o senza istruzione che parlano in dialetto, il fatto è che è esattamente quello che farebbero nella realtà, quindi farli parlare in dialetto è l’unico modo verosimile di farli parlare.
A me non piace che si senta la mano dello scrittore dietro i personaggi, cerco di rendere i miei dialoghi realistici, quindi se siamo in Germania, sì, ci saranno delle frasi in tedesco. Certo che poi sta a me non confondere il lettore, rendere comunque il testo capibile anche a chi il tedesco o il dialetto non lo conosce.
NEL SIMBOLISMO DI CUI È INTRISO LA TERRA DEL SACERDOTE HANNO UN POSTO SPECIALE UN ALBERO E IN PARTICOLARE LE SUE RADICI.
QUALI SONO PER TE LE TUE RADICI LETTERARIE? A QUALE TRADIZIONE TI RIFAI QUANDO SCRIVI?
Molti hanno affiancato la scena iniziale con la nascita del feto morto alla celebre scena dei Viceré di De Roberto, ma devo dire che no, non avevo in mente lui mentre scrivevo.
I due poli a cui mi rifaccio quando penso a come scrivere una storia sono Italo Calvino, il mio modello per la narrativa italiana, e la letteratura sudamericana, con particolare riguardo per Julio Cortázar.
Poi nel caso di questo romanzo ho tenuto anche molto presente la letteratura di frontiera e McCarthy, perché trovo che nessuno descriva bene come lui il nulla, il deserto, l’aridità.
A PROPOSITO DI LETTERATURA SUDAMERICANA, PARLANDO DI JULIO RAMÓN RIBEYRO AL CIRCOLO DEI LETTORI A TORINO NE ELOGIAVI LA TECNICA NARRATIVA. COS’È PER TE LA TECNICA NEL TUO LAVORO? CHE IMPORTANZA HA?
Per me la tecnica è fondamentale, anche se ovviamente ognuno segue diverse strategie quando scrive. Io credo di essere molto tecnico. È la mia arma per tenere il lettore incollato alla pagina, per non fargli chiudere il libro. A volte la mia scrittura sembra surreale, ma è sempre tutto studiato a tavolino, non è mai lasciato al caso. Curo soprattutto la struttura delle mie storie, la studio, la limo. L’ossatura e il montaggio della storia sono per me fondamentali. Faccio sempre prima uno schema dello scheletro della storia, prima di mettermi a scriverla. C’è prima questa parte di lavoro organizzato, poi solo dopo, quando cerco le parole, viene fuori il lato istintivo della creazione.
QUANTO CI HAI MESSO PER SCRIVERE LA TERRA DEL SACERDOTE?
Circa sei mesi per pensare la storia, per elaborarla, poi quattro per scriverla.
CI RACCONTI IL TUO ESORDIO? COM’È INIZIATA QUEST’AVVENTURA LETTERARIA?
Io ho iniziato a scrivere all’età di vent’anni. Studiavo sceneggiatura, ma ho sempre scritto racconti brevi che mandavo a tutti i concorsi letterari – più che altro per motivi economici, ma anche perché volevo farmi leggere da qualcuno del settore.
Fra i tanti, partecipai al concorso 8×8 a Roma e lo vinsi. Fra gli organizzatori c’era una persona che lavorava in Neri Pozza, la mia attuale casa editrice, ed è stata lei a propormi una collaborazione.
CHE CONSIGLIO DARESTI A UN GIOVANE SCRITTORE CHE VUOLE ESORDIRE NEL MONDO EDITORIALE ITALIANO?
Ci sono sicuramente persone più brave e più esperte di me per dare consigli, ma io per stare sul pratico direi suggerirei di non nascondersi. Farsi vedere, farsi leggere.
Non avere vergogna o paura che il proprio mondo interiore possa venir non capito o che si possa sporcare al contatto con quello che c’è fuori.
Non c’è niente di più bello che sapere di aver dato luce alla giornata di un estraneo. Avere dei riscontri sul proprio lavoro è fondamentale. Anche negativi, le critiche servono sempre.
AD APRILE HAI SAPUTO DI ESSER STATO SCELTO TRA I FINALISTI DEL PREMIO STREGA.
COME LO HAI SAPUTO? TE LO ASPETTAVI? COSA SIGNIFICA A 26 ANNI QUESTO RICONOSCIMENTO?
Sapevo che quel pomeriggio sarebbero usciti i nominativi dei vincitori ma in quel momento non ci stavo pensando.
Ero connesso a Internet e così per caso ho visto il mio nome fra i dodici twittati dall’account del Premio Strega come finalisti.
Per me è un privilegio poter stare insieme a persone così importanti. Questa nomina è un riconoscimento del mio ruolo nella società civile, una cosa che è particolarmente importante secondo me per i ragazzi della mia generazione. Mi ha anche fatto capire che sono sul cammino giusto.
ESCLUSO IL TUO LIBRO, SECONDO TE QUALE OPERA MERITEREBBE DI VINCERE LO STREGA? COSA TI ASPETTI CHE SUCCEDA L’11 GIUGNO?
Io mi sento particolarmente affezionato a Francesco Piccolo, come autore di libri e come scrittore di film. Le sue commedie sono al tempo stesso veloci e profonde, le ho amate tantissimo.
Il suo Il desiderio di essere come tutti è un libro che va letto, che racconta una storia imprescindibile. Quindi sì, faccio il tifo per lui.
Serena Avezza
@twitTagli