
Ogni volta che Antonio Ingroia apre bocca, Montesquieu rulla nel suo sepolcro, nemmeno fosse un omino del calciobalilla. Pazienza, il principio della separazione politica dei tre poteri è un retaggio che nel terzo millennio pare non essere più così succulento.
Volano stracci tra magistrati, travolti dalla polemica e/o dall’arrivismo politico: prima tra Ingroia e Piero Grasso (un altro che avrebbe fatto tanto bene a continuare a vestire la toga), ora tra Ingroia e Ilda Boccassini, la PM rossa (di capelli, ça va sans dire).
Chi ha ragione, è ininfluente: sta di fatto che queste beghe a metà tra il personale e il parlamentare stanno picconando la credibilità della magistratura.
Tre giudici molto in vista che si rinfacciano, nell’ordine, di essere “compromessi con il regime” (Grasso, nominato a capo della Procura Nazionale Antimafia da Berlusconi, che lo preferì a Gian Carlo Caselli), di protagonismo (la Boccassini a Ingroia), di inadeguatezza (Ingroia alla Boccassini, dopo essersi paragonato a Falcone, aver smentito e ora appellandosi all’altro mahatma defunto della giustizia italiana, Paolo Borsellino).
Ci sono diversi cigolii in questa vicenda: primo, Ingroia non ha definitivamente chiuso con la sua precedente carriera (Ingroia è in aspettativa elettorale: in casi del genere sarebbero assai preferibili le dimissioni; anche Grasso è in aspettativa elettorale, ma ha collateralmente inoltrato richiesta di prepensionamento da febbraio: l’effetto sostanziale è quello delle dimissioni).
Secondo, non si capisce perché la Boccassini venga interpellata e soprattutto rilasci dichiarazioni (non è un ufficio stampa, è un pubblico funzionario! È vero che non le è vietato parlare, ma è anche vero che posizione e ruolo le impongono prudenza).
Terzo, così facendo Grasso e Ingroia non rendono giustizia al loro precedente operato, legittimando il sospetto indimostrabile che le loro azioni precedenti fossero magari non dirette, ma magari lontanamente influenzate da prospettive di carriera futura e diversa.
Quarto, sarebbe ora di lasciar riposare in pace i due martiri della lotta alla mafia.
Non è accettabile che in ogni dibattito in tema di magistratura si arrivi a utilizzare il carisma di due uomini massacrati nel torbido clima di inizio anni ’90. È una questione di decenza: “Borsellino avrebbe detto, Falcone avrebbe fatto”, “Falcone di te pensava, Borsellino di te diceva”. Usati come spauracchi, come paravento, come assicurazione morale di sé stessi ancor prima che delle proprie idee. Che squallore.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi
P.S.: a margine di tutto ciò, da diverse parti dell’opinione pubblica sta sorgendo la proposta di vincolare l’aspettativa elettorale per un magistrato al termine temporale di un anno di distanza dalle elezioni successive, e di vietarne la candidatura nei collegi in cui il magistrato aveva esercitato la sua funzione: mi paiono proposte ampiamente sensate e condivisibili.