Il selfie di Totti è un’opera d’arte postmoderna

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Non so se Francesco Totti abbia mai sentito parlare di “postmoderno” e non so nemmeno se la sua riflessione settimanale sull’idea di farsi un selfie nel derby abbia contemplato la lettura della saggistica filosofica di Jean-François Lyotard e Fredric Jameson, due degli autori che hanno contribuito a concettualizzare la nozione di “postmoderno”. Tuttavia, so che se fossi Lyotard o Jameson sarei invidioso della geniale istintività con cui il pupone nazionale è riuscito a condensare in una semplice fotografia una definizione cristallina e forse insuperabile di “postmoderno”.

Innanzitutto, il selfie è già di per sé una chiara espressione della cultura postmoderna, che si specchia e si autorappresenta narcisisticamente con l’ausilio della tecnologia. Non esiste infatti postmodernità senza tecnologia, che invade le nostre vite abbattendo barriere che credevamo insormontabili, come l’idea di privacy. E, allo stesso tempo, non esiste postmodernità senza quella dose autoreferenziale di narcisismo che è propria della civiltà dell’immagine e del simulacro.

Con la sua tipica autoironia, tuttavia, Totti è persino riuscito ad andare oltre i canoni standardizzati del selfie, demolendoli e rinnovandoli: il suo autoritratto è talmente grottesco e surreale – il viso schiacciato sul margine dell’inquadratura, la smorfia comica – da apparire quasi un fotomontaggio. È decostruzionismo, è sperimentazione, è riflessione sul concetto stesso di “selfie”. Totti come Jacques Derrida.

Il selfie, poi, è postmoderno anche nella misura in cui trascende la banale concezione della fotografia come mezzo per fissare un evento nella memoria. Il selfie è esso stesso la creazione dell’evento, in virtù della premeditazione piena di autocompiacimento che sempre l’accompagna. Il selfie di Totti, nato in partenza con l’obiettivo di immortalare la doppietta nel derby (l’evento), diventa a sua volta evento da ricordare. Grazie al web, lo scatto fa il giro del mondo e, invece di amplificare la portata del gesto tecnico (Totti ha appena segnato in acrobazia alla veneranda età di 38 anni, rendiamoci conto), quasi la oscura. Per dirla alla Baudrillard, un altro teorico del postmoderno, l’immagine ha sostituito il reale.

Per di più, l’evento in questione è una partita di calcio, che, per natura, anche nel caso di un derby, sarebbe arduo concepire come evento, sia perché si ripete con una scadenza temporale prefissata, sia perché la sua esperienza è continuamente mediata dall’intervento della televisione, che ha tutto l’interesse ad esaltarne le caratteristiche proprie dell’ “evento”, come l’eccezionalità e la carica emotiva. Anche questo è profondamente postmoderno.

Osserviamo poi la composizione del selfie, che sarà pure casuale e approssimativa (in fondo Totti taglia maldestramente il proprio mento dall’inquadratura), ma sembra addirittura studiata. Alle spalle del capitano romanista, sulla sinistra, si trova un fotografo, ritratto in una postura che è la quintessenza della professione del fotografo: macchina davanti agli occhi, pronta a scattare, e gambe flesse e in tensione, appena guizzate di lato nel tentativo di “rubare” l’attimo. Il selfie di Totti rende però superfluo lo sforzo del fotografo e lo tramuta, in maniera assai postmoderna, in un soggetto stesso della fotografia. Totti come Diego Velázquez. D’altronde è nell’essenza del postmoderno l’annullamento di ogni differenza fra professionisti e amatori: tutti possono fare tutto, e così, in questo caso, anche il ruolo del reporter viene meno. È Totti in persona a documentare in presa diretta le sue gesta.

Quella che doveva essere una celebrazione in forma privata di un momento memorabile dell’ultima parte della sua carriera da calciatore (il cellulare infatti appartiene proprio a Totti), diventa quindi, involontariamente, la traccia di un’epoca, la testimonianza dell’era del calciatore – divo o, visto il pubblico in visibilio sullo sfondo, del calciatore – simbolo culturale/generazionale.
Se fossi uno studioso del postmoderno, infine, non potrei non trattenermi dal suggerire che persino la presenza dei tifosi esagitati sugli spalti costituisce un illuminante simbolo del postmoderno, dal momento che il tifo calcistico non è altro che un surrogato delle ideologie ormai in decadenza.

Ma la vera consacrazione a opera postmoderna del selfie di Totti potrebbe essere raggiunta solo in un modo: l’esposizione in una galleria d’arte contemporanea. Cosa ci sarebbe di più postmoderno di una fotografia che contamina la cultura bassa dello stadio e del selfie con quella alta di un museo? Non mi stupirei se prima o poi dovesse accadere.

Jacopo Di Miceli
@twitTagli

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