Tutta questa fibrillazione per l’elezione del Presidente della Repubblica è anomala: passi l’attenzione, passi la curiosità; ma la tensione diffusa che si è sciolta nella liberatoria elezione dopo il quarto scrutinio è un elemento eccessivo in rapporto alle prerogative e al potere effettivo della figura presidenziale.
Storicamente ed istituzionalmente, il nostro sistema Costituzionale dà una connotazione molto precisa di cosa può o non può fare il Presidente: all’interno di questa architettura, sta al singolo soggetto e alla sua reattività alle contingenze esterne il regolarsi su come e quanto pesare nella complessità del sistema.
Nella storia repubblicana, vediamo due tendenze al momento dell’elezione: metà dei Presidenti è stata eletta entro il quarto scrutinio (Einaudi, Gronchi, Cossiga, Ciampi, Napolitano I, Mattarella); in quattro casi l’elezione è andata per le lunghe, oltre il 15° scrutinio (Saragat, Leone, Pertini, Scalfaro) con record di 23 votazioni per Giovanni Leone.
A sé stanno i casi di Mario Segni, 9 scrutini, e Giorgio Napolitano II, 6 scrutini: due esempi diversissimi.
Lo sfortunato Segni verrà riproposto insistentemente per tutte e nove le votazioni, raggranellando consenso progressivo all’interno e all’esterno della Democrazia Cristiana; viceversa, lo psicodramma del Napolitano II lo ricordiamo tutti distintamente.
Dunque è un falso mito presentare l’elezione del Capo dello Stato come momento delicatissimo e decisivo; o meglio, è un falso mito rappresentare questa come una situazione assoluta e ciclica.
In altre parole: nel 1971 ci vollero 23 assemblee perché dalla disputa tra l’uscente Saragat e Francesco De Martino venisse risolta a favore di un Giovanni Leone pescato dal cilindro, e l’Italia andò comunque avanti; stessa cosa accadde con Pertini, dopo che in quindici votazioni Giorgio Amendola non era riuscito a sfondare all’interno della DC: Pertini fu invece la testa di ponte socialista digeribile anche dalla Balena Bianca. Anche qui, il Paese sopravvisse egregiamente a quest’incertezza.
Cosa cambia con l’elezione di Scalfaro, Napolitano II e Mattarella? Cosa cambia nel modo di gestire la Presidenza da parte di Cossiga, ancora Scalfaro e ancora Napolitano II?
Perché fino agli anni ’90 ci si poteva permettere una liturgia lunghissima per l’elezione del Presidente, tutta interna alle dinamiche parlamentari? E perché lo stesso Presidente rimaneva confinato ad un ruolo molto meno incisivo, o comunque lontano dall’interventismo e dalla mediaticità assunta in epoca recente?
Il Presidente forte serve a gestire una fase politica delicata: in un sistema di partiti in crisi totale, il Presidente diventa punto di riferimento e depositario di una visione di insieme che sfugge alle componenti del Parlamento.
Non è un caso che Cossiga inizi ad andare oltre le righe in corrispondenza di due eventi: la fine della contrapposizione tra blocchi tipica della Guerra Fredda e le prime avvisaglie di Mani Pulite.
Non è un caso che l’elezione di Scalfaro sia decisa in fretta e furia dal nulla, dopo che le bombe della Strage di Capaci riscrivano involontariamente (più o meno) la graduatoria delle priorità della Repubblica; né è un caso che Scalfaro gestisca la prima ondata berlusconiana con atti molto distanti dall’aplomb e dal distacco con cui avevano agito i suoi predecessori.
Sono tutti momenti (il crollo del Muro, il cambio di orizzonti politici internazionali, Tangentopoli per Cossiga; la mafia e il turbolento inizio della Seconda Repubblica per Scalfaro; la totale crisi partitica per Napolitano II) che colgono drammaticamente impreparata la dirigenza politica italiana, ben più che negli Anni di Piombo.
Se il terrorismo, l’eversione, la lotta di classe furono in qualche modo gestiti dalle forze attive nell’agone politico, gli eventi precedentemente elencati trovano spiazzati i partiti e i vari segretari. Che si dimostrano inadeguati.
Dunque, per supplire alle deficienze del sistema, le varie figure presidenziali hanno ritenuto opportuno scardinare il grande formalismo della carica e diventare attori dinamici sul proscenio.
Mattarella pare, per spessore proprio e modalità di elezione, un Presidente di altri tempi. Taciturno, riservato, lontano dallo scontro quotidiano.
Parrebbe che Renzi veda l’evoluzione del dibattito politico direzionata verso la normalizzazione: portare Mattarella al Colle può essere il tentativo di “silenziare” un figurante sulla scena; può avere come fine ricompattare la figura istituzionale, in fin dei conti traumatizzata dall’azione di un uomo dal grandissimo carisma e dalla grandissima progettualità come Giorgio Napolitano.
Ma non bisogna sottovalutare il peso intrinseco della carica: Renzi, come suo solito, rilancia e si propone come unico orizzonte della politica nostrana. Si prende su di sé la responsabilità di riequilibrare il sistema.
Nessuno – nemmeno lui – sa se ce la farà; dovesse mai fallire, il peso della carica presidenziale e la sua sostanziale intoccabilità potrebbero aiutare perfino una persona schiva come Mattarella a tirar fuori le unghie.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi