
“Sono diventato Presidente degli Stati Uniti perché non potevo essere Bruce Springsteen”: così disse Barack Obama il giorno del suo primo insediamento.
Questo basterebbe a spiegare chi sia e cosa rappresenti Bruce Springsteen nell’immaginario collettivo americano e mondiale. Il tributo di Obama è anche certamente un ringraziamento per il massiccio supporto dato da Springsteen alla candidatura del primo presidente nero della storia americana.
L’appoggio assolutamente e palesemente disinteressato di Springsteen alla campagna di Obama è sintetizzabile nelle parole che gli sentii pronunciare prima di un discorso del futuro presidente: “Tutta la mia carriera è stata un tentativo di descrivere il sogno americano, e soprattutto di descrivere quanto la realtà si discosti da quel sogno. Ebbene io appoggio Obama perché questo Paese ha bisogno di cambiare, perché la distanza tra la realtà e il sogno americano non è mai stata così grossa come in questi anni di presidenza Bush”.
Credo che in pochi, come il Boss, siano in grado di descrivere l’America profonda: quella che decide le elezioni, che sta al centro del continente. E quindi pochi come lui sono in grado di parlare al cuore di quell’America piena di contraddizioni – e quindi straordinaria in tutti i sensi. Una nazione in grado di eleggere sia Bush che Obama, di sconfiggere nazismo e fascismo per poi appoggiare Pinochet. Insomma, una nazione che vive delle sue contraddizioni: che Springsteen coglie, interpreta e mette a nudo in maniera magistrale. Soprattutto quando si esibisce dal vivo, quando la sua carica trascende e tu, che stai sotto il palco, sei catapultato in quel mondo. Un mondo dove tuttavia Springsteen riesce a parlare della e all’America, a tutto il mondo ma soprattutto di e a te. Lo vedi sul palco di fronte a decine di migliaia di persone, ma sembra stia proprio riferendosi a te: sei “l’us” delle sue canzoni, lui dice “noi”, e tu ci credi – che sta parlando di te e di lui.
Non vi nascondo però che il mio amore per Springsteen ha origini anche extra musicali e fortissimamente personali. La prima volta che andai a vederlo ero stato quasi obbligato da Cesco, uno dei due miei migliori amici, che ci disse di andare a vederlo a San Siro con lui: era il giugno 2008. Fu un’autentica rivelazione, in stile Blues Brothers: vedemmo la luce e ne rimanemmo folgorati.
Poi, un anno più tardi, il Boss venne a suonare “in casa nostra”, all’Olimpico di Torino: quella volta eravamo più preparati e fu persino più incredibile del “nostro primo incontro”.
Assurda, poi, fu quella che faccio fatica a definire una coincidenza, e che avvenne il primo novembre del 2010. Ero a Roma e, un po’ per caso, avevo preso i biglietti per la proiezione, al Festival del cinema, del documentario di Springsteen “the Promise”. A sorpresa, era stata annunciata la sua presenza solo il pomeriggio prima.
Ero sul tappeto rosso. A pochi minuti dall’arrivo del Boss mi squilla il telefono. Guardo il display: Cesco. Rispondo esaltato, pensando sia lui che mi chiede com’è da un metro Bruce.