Noi figli di ferrovieri, che spesso dei genitori non abbiamo seguito le venerabili orme, difficilmente resistiamo al richiamo sferragliante del treno.
Tutta una questione di psicologia spicciola e di fatti legati all’infanzia. Il ritmo del treno, da piccoli, ci cullava.
Sensazioni olfattive, tattili e visive che vanno oltre il buono, piacevole e bello, per collocarsi con eleganza nella sfera della nostalgia.
Per me i Veri Viaggi erano solo quelli annoverabili nel manuale dell’immigrato medio: per andare giù. I tragitti brevi, quelli sotto le quattro ore, non erano nemmeno degni di essere annoverati nel concetto di viaggio.
Erano piccole e insignificanti trasferte in cui il treno non era stato valorizzato come si sarebbe potuto.
Il vero viaggio doveva superare le otto ore, ma se arrivavi a dodici era meglio. Eri degno di attenzione se la temperatura esterna era di 40 gradi e quella interna, percepita, di 65.
L’umidità doveva attestarsi intorno al 98%. La situazione di overbooking era al limite del parossismo, con persone appoggiate in ogni dove e bambini messi al posto delle valigie a dormire (no, non è una battuta).
La mia famiglia prenotava l’intero scompartimento da 6. A gennaio. E partivamo ad agosto, nel più classico degli stereotipi: cibo sufficiente per una settimana, acqua per due (perché l’acqua è più importante), pigiama per la notte a portata di mano, parole crociate, riviste e, per i più giovani, walkman.
Mangiavi già mezz’ora dopo la partenza, per noia. E litigavi per la luce, perché i nonni la volevano spegnere già al tramonto e tu non avevi sonno. Così passavi quelle che ti sembravano ore sveglio, steso sul letto della cuccetta, coperto dalle lenzuola di carta, a un metro dal tettuccio dello scompartimento.
Probabilmente si trattava solo di qualche minuto, perché il dondolìo del treno aveva sempre la meglio. E ti addormentavi.
Eri davvero un figo solo se il treno superava l’ora e mezza di ritardo. Se fosse arrivato puntuale, cosa avresti raccontato ai parenti alla stazione? I treni verso le vacanze arrivavano in ritardo apposta, secondo me.
Per prolungare l’attesa, per permettere ai passeggeri di discutere concitati e per avvicinarsi all’arrivo con eccitazione crescente, pronti a raccontare alla zia tutta la fatica del viaggio.
Avevi addosso l’odore del treno, per cui ti infilavi immediatamente in doccia e la roba veniva messa tutta a lavare. Che schifo, l’odore del treno in quel momento.
A distanza di una ventina d’anni, quando salgo sul treno (meglio quelli vecchi), mi sento in qualche modo a casa. Salgo, mi siedo e puntualmente mi addormento.
Intorno potrebbe accadere il finimondo, ma io sento l’odore del treno e il dondolìo. E dormo.