Game of Thrones, un bilancio della 6^ stagione: brillante intrattenimento o televisione che si trascina a fatica?

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Avviso ai naviganti: l’articolo contiene spoiler per le prime 6 stagioni di Game of Thrones. “Ma va?” – aggiungerei anche. Ne sto per parlare. Bene? Male? Così così? Se la smettete di interrompermi comincio.

Quando si è conclusa l’ultima inquadratura dell’ultimo episodio della quinta stagione, con una serie di prolungate pugnalate ai danni del povero Jon Snow, Il Trono di Spade è arrivato al suo momento più difficile sia sul piano narrativo che, soprattutto, produttivo.
Il gigantesco cliffhanger doveva essere difeso con le unghie e con i denti, e da quel momento a quando gli occhi di Kit Harrington si sono riaperti sono stati 322 lunghi giorni per produttori, cast, squadra e publicist vari ed eventuali.
La vittoria più grande di Game of Thrones è stata riuscire a mentire sulla natura di un colpo di scena dal destino inevitabile e allo stesso tempo mantenere il pubblico eccitato per ciò che doveva ancora avvenire. Questa delicata “danza” è alla base dell’analisi che si può fare dell’ultima stagione di Game of Thrones: il legame tra lo show più popolare della storia della televisione e la fanbase che lo ha reso tale. 

“The Winds of Winter”, decimo episodio dell’ultima stagione, è una saracinesca che chiude un sacco di porte relative a teorie, ipotesi ed elucubrazioni sul futuro di Game of Thrones per come lo conosciamo.
Esaurisce in modo definitivo il materiale dei romanzi, che sono stati “adattati” e sforbiciati da più storyline, e mette in moto gli eventi che concluderanno l’intera saga, e che in una certa misura il pubblico aspetta dall’uscita del primo libro (e/o del primo episodio): su tutti, il ritorno di Daenerys a Westeros e la grande battaglia finale contro il Re della Notte e l’esercito di non-morti.

Questa specie di fretta, o quantomeno di “efficienza” nel risolvere le trame non essenziali e ricondurre i personaggi sulla strada principale del loro destino, è la spada di Damocle della serie. Da un certo punto di vista viene da dire “Era ora”: era tempo che lo show la smettesse di parlarsi addosso, di dilatare i tempi e di dare spazio a personaggi ed eventi secondari. L’efficienza è un pregio, se la tua serie televisiva è avviata verso una conclusione climatica ed epica.
Dall’altra parte, dispiace che in questa “efficienza” sia stata persa parte di quella magia intrinseca dell’universo di Game of Thrones: l’attenzione al dettaglio e alla costruzione di una tensione graduale e sottile, dove una minaccia è più virtuale e psicologica che concreta e dove “Winter is coming” si avverte solo come eco mistico di un male lontano ed insondabile, laddove invece le preoccupazioni più materiali riguardano gli intrighi di palazzo, una cinica scalata al potere dove se sbagli qualcosa sei morto.

Per la cronaca, non è che stia dicendo che mi mancano gli intrighi di palazzo. Preferisco i draghi.
Però ecco, mi manca Tyrion in quanto Tyrion.
Mi piacerebbe che i personaggi fossero personaggi e non una pluralità di vettori per avanzare la trama.
Ma andiamo con ordine. 

LE COSE MIGLIORI

1. I primi 20 minuti di “Winds of Winter”
Forse la migliore sequenza contenuta all’interno della stessa storyline dai tempi del Red Wedding.
Funziona tutto alla grande: dalla regia, in mano Miguel Sapochnik (già autore dei migliori episodi recenti), capace di costruire una tensione lenta e un respiro drammatico a ciò che sta per avvenire, all’accompagnamento musicale originale di Ramin Djawadi.
Dal montaggio dedicato alla “preparazione incrociata” dei personaggi al processo fino alla brutale esplosione del Great Sept of Baelor, lo spettatore è travolto da un’onda di orrore e (finalmente) convincente empatia verso la sorte dei personaggi.

2. The Battle of the Bastards: una gloriosa, sanguinaria ora di televisione
Miguel Sapochnik, che ci già ci aveva dato il punto più alto della stagione precedente con “Hardhome”, ha rispettato svariate premesse e promesse avviate nel corso della sesta stagione. A partire dall’epico scontro tra bastardi, nel quale è piuttosto gratificante vedere finalmente un’agrodolce “vittoria finale dei buoni” ma allo stesso tempo è sinceramente emozionante assistere a una partita in bilico, a un Jon Snow in profonda difficoltà “tattica” che da un momento all’altro potrebbe perdere (di nuovo) tutto.
Sul lato puramente cinematografico, “The Battle of the Bastards” è un incrocio sporco e macabro tra Braveheart e il Fosso di Helm.
Il livello di “immersività” e coinvolgimento dello spettatore è particolarmente azzeccato e nell’episodio c’è anche tempo per seguire Daenerys e la prima vera e propria volta in cui i draghi diventano le armi di distruzione di massa che sono destinati a diventare.
Nel complesso, tutto bello.

3. Hold The Door
Forse la miglior morte televisiva della stagione, e forse il momento che più di ogni altro sembra respirare e pronunciare lo stesso linguaggio parlato dai romanzi di Martin.
Il set-up delle “origini” di Hodor è uno di quei colpi di scena a lungo pianificati, calcolati e suggeriti in maniera sottili per molto tempo e con molta attenzione ai dettagli. Il potere di esplorazione spazio-temporale di Bran, integrato con il “peccato” di averne abusato e causato morte e distruzione a persone a lui care, è uno di quegli ingegnosi “scacchi morali” a cui l’inventiva di Martin ci ha abituato.
In più, Hodor esce fuori come una maschera tragica così piena di pathos e disperazione che non può che essere più memorabile di praticamente qualunque cosa lo circondi. Compresi i flashback e le cosiddette “rivelazioni shock”. 

LE COSE PEGGIORI

1. Dorne, ovvero “Accazzodicane Ferretti, accazzodicane”
Le sequenze ambientate a Dorne, altrimenti dette “Occhi del Cuore 4”, sono brutte. Molto brutte.
È inutile girarci attorno: nello spazio di 10 minuti di screen time si decide che è il caso di trasformare le Sand Snakes e la loro boss Ellaria – ehi, somigli un sacco alla ragazza di un mio amico – Sand in cospirazioniste anti-maschio che, non paghe di avere ucciso una ragazzina, fanno fuori in un colpo solo un personaggio teoricamente importante come Doran Martell e in pratica stabiliscono un’improbabile nuovo regno di cui ci ricordiamo solo nel finale.

2. I flashback ambientati alla Tower of Joy
Vent’anni e passa di teoria e scleri da genealogia di personaggi fittizi, e poi ci tocca questa roba qua.
La rivelazione capace di scuotere l’intero impianto narrativo di una colossale saga fantasy è, nei fatti, una poverata allucinante. Forse è vero che lo sospettavano (per non dire “sapevano” anche i sassi), ma la scoperta dell’identità dei genitori di Jon Snow è talmente telefonata che un lancio di Thiago Motta in confronto è pura imprevedibilità.

3. L’assedio di Riverrun e la sorte di Blackfish
Boh.
Devo anche commentare questa roba?
A chi e cosa è servito reintrodurre la storyline per poi troncarla miseramente, senza apparenti conseguenze per il resto della trama? Un personaggio come il Blackfish dei romanzi avrebbe meritato più approfondimento, ma forse questa particolare sottotrama è una delle vittime dell’ “efficienza” targata Weiss e Benioff delle ultime due stagioni.

4. La resurrezione
Tutto bello eh, siamo contenti che sia tornato. Ma qualcosa di leggermente più creativo che un rituale dove per risvegliare Jon Snow gli tagliano barba e capelli?
Come per alcuni (molti?) altri nodi narrativi di questa stagione, non posso fare a meno di notare un po’ di approssimazione in materia di costruzione della scena.
In poche parole: per avere la sensazione di assistere a un evento significativo, bisogna prima di tutto guadagnarselo. Costruire la tensione e l’aspettativa, non semplicemente “buttarla lì”.
Quanto abbiamo sofferto insieme a Ned Stark prima di venire traumatizzati dalla sua morte improvvisa?
Quanto tempo abbiamo passato con Tyrion e la sua solitudine prima di assistere alla gloriosa “confessione” durante il suo processo?
Al contrario, quanto ce ne frega che sia morto Balon Greyjoy?

Davide Mela

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