Elezioni di Roma: candidati in cerca d’autore e (brutta) fine annunciata

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“Roma Torna Roma”.
Sembra un incrocio tra “torna a casa Lassie”, “Casa Dolce Casa” ed un’esclamazione di Super Sloth dei Goonies.

“Questa è Roma”.
Grazie, per fortuna che questo cartellone vicino al Colosseo e sopra una montagna di immondizia mi ha ricordato che non siamo a Londra. Sai, per un attimo…

“Ti hanno tradito. Noi no”.
O almeno, non ancora ma tranquillo, è questione di tempo.

Questi sono alcuni degli slogan dei principali candidati alle elezioni a Sindaco di Roma, che si svolgeranno tra meno di un mese. L’effetto che fanno è quello da jingle radiofonico, di quelli prima della pubblicità. Li sai a memoria, da un orecchio entrano e dall’altro escono. Ma quelli, gli stacchetti intendo, almeno hanno un senso. Dicono il nome della radio.
I manifesti invece dicono tutti, la stessa identica cosa: NON ABBIAMO IDEA DI COSA STIAMO FACENDO.

Nei miei anni di discreto interesse politico e di chiamata alle urne, mai ho visto una tale confusione di intenti, progetti, slogan e soprattutto candidati.
Si è partiti per esclusione, sapendo che Marino non si sarebbe candidato di nuovo nonostanti i suoi sostenitori non sono che aumentati.
Alemanno sta probabilmente rispolverando i suoi vecchi e cari contatti in Argentina, ma deve intanto attendere l’eventuale fine del processo a suo carico per corruzione e finanziamento illecito dopo essersi salvato dall’accusa per associazione mafiosa.
Quindi i primi due grossi nomi, purtroppo e per fortuna, ce li giochiamo subito.

Ci riprova pure quello rasato con la barba, quello che quest’anno candida gente arrestata perché voleva respingere un pullman di immigrati assegnati in un residence alle porte di Roma, e che per una volta se le presero dalla polizia. Sì dai, avete capito, quello vestito di nero che vuole rimpatriare tutti quelli con la pelle non bianca e il cui fratello tira la Coca Cola sugli stand di case editrici che pubblicano fumetti satirici su quello che quando c’era tutto era pulito ed in orario.
Il nome suo e del suo “partito” non lo scrivo per decenza.
Quindi, dopo questo primo turno di “Indovina Chi?”, ci rimangono quattro nomi: Giachetti, Meloni, Raggi e Marchini.
In ordine, ed in sintesi.

Giachetti, PD, deve riuscire nell’impresa di tenere per i capelli i pochi tesserati rimasti a Roma dopo il tradimento ordito contro Marino. Coloro che hanno tagliato, non li vedrà nemmeno con il binocolo. E sono tantissimi.
A livello capitolino il PD ha subito un’ecatombe, gli ultimi dati riportavano iscrizioni franate oltre la metà in meno di due anni, con un Orfini sempre più disperato, arrogante e cieco di fronte al guaio combinato con l’ex sindaco.
Certo è che il PD si potrebbe comunque accaparrare i voti di tutti quelli che, per l’ennesima volta, andranno a votare con la molletta sul naso.

Meloni, Fratelli d’Italia, si presenta come sempre con un alto budget da destinare ai grafici che alacremente lavorano con Photoshop le sue foto, la Chiesa dalla sua perché si sa che le vergini incinte fanno sempre comodo, ed il solito astio per tutto ciò che quel tipo di destra non riesca a capire. E cioè tutto, dall’immigrazione alla cultura.
Il suo primo sostenitore è Matteo Salvini, e qui mi fermo.

Raggi, Movimento 5 Stelle, la favorita per un sicuro ballottaggio con Giachetti. Parte bene perché raccoglie tutto quel bacino già presente di persone disperate, più altre che son salite sul carrozzone post Marino (ed anche qui bravo PD, bel regalo).
Donna sicura dal passato oscuro (come ruoli importanti in società legate ad Alemanno ed il praticantato nello studio di Previti), presenta un programma di undici frasi.
Non punti, frasi.
Tante belle parole su mobilità, rifiuti, casa e cultura ma non un progetto, non un’idea, nessuna prospettiva.
Insomma, niente di nuovo sul fronte pentastellato.

Marchini, con la sua lista civica, chiude le fila. Marchini è l’altra faccia di Caltagirone, in due si dividono da decenni le costruzioni edilizie a Roma, da loro affogata piano piano nel cemento.
Apoggiato in extremis da Berlusconi che ha scaricato un Bertolaso con i manifesti elettorali attaccati in giro già da settimane e che, testimone oculare, sono ancora presenti in alcune zone periferiche.
Bello e dannato, il suo faccione sui manifesti promette di far piazza pulita di ogni cosa, tanto che viene da pensare rimarrà solo per poi, da solo, cacciarsi.
Anche lui tenta la Chiesa ed il suo endorsement con un’entrata a gamba tesa sui matrimoni gay, annunciando che non li celebrerà, dopo che l’ex sindaco Marino si era battuto, primo cittadino insieme a pochi altri in Italia, per poterli non solo officiare ma anche registrare ufficialmente.
Insomma, con Alfio Marchini il passo da qui al Medioevo 2.0 è un attimo.

Eccola, la lista dei candidati. Non mi dilungo su Fassina che si elimina (e commenta) da solo, e su altri personaggi minori come Mario “viva la famiglia tradizionale mentre mi sposo a Las Vegas” Adinolfi.
Persone che non hanno idea di cosa stanno facendo, non hanno idea di quale sia realmente la situazione a nella Capitale, persone che non hanno un’idea che è una in genere.
Lo si capisce dagli slogan sui cartelloni, dove la parola Roma è abusata, sfruttata, violentata.
Ci dicono che Roma siamo noi, quasi volessero accollarci il problema. È vero che metà dei problemi li fanno i romani, ma è anche vero che noi un sindaco lo avevamo e ci è stato tolto senza una vera ragione, che piacesse o meno.
Non bisogna dimenticare che Ignazio Marino, democraticamente eletto da oltre 600.000 persone nel 2013, è stato esautorato anche dalle persone che si candidano ora. Erano lì intorno, come squali che sentono l’odore del sangue fatto di scontrini e viaggi istituzionali all’estero. Le bandiere dei loro partiti, che ora si rinfacciano demeriti e si fingono nemici, erano lì sotto il Campidoglio quella notte di Ottobre dell’anno scorso, tutte insieme, unite sopra le carte di credito che ci venivano sbattute in faccia con scherno.

Ma si sa, siamo un paese dalla memoria corta e dalla lingua lunga. Da quando è arrivato il commisario Tronca, una delle tante braccia esecutrici di Renzi, tutto è tornato alla normalità.
Ci si è tornati a lamentare delle buche e del traffico, mentre intorno muoiono spazi fondamentali per la diffusione della cultura e delle politiche sociali a Roma, ultimo di una lista troppo lunga il Dal Verme, chiuso con una legge di epoca fascista e che in sintesi accusa proprietari e frequentatori di essere grandi spacciatori, trafficanti di armi, papponi.
Una mannaia folle che sta simunzzando la città, la sta frazionando in tante piccole, tristi realtà senza speranza, dalle periferie dimenticate al centro invaso dalla mafia che si insinua in ogni locale che abbia un giro di soldi.
Vi consiglio a tal proposito un bellissimo articolo di Christian Raimo su Internazionale, che spiega questo aspetto in maniera drammaticamente sublime.

Insomma, Roma è di nuovo l’arena di uno scontro aperto senza regole e senza nessuna voglia di scriverle. La brutta copia di se stessa costretta, per l’ennesima volta, a farsi di nuovo a sua immagine e somiglianza, in attesa che qualcuno abbia il coraggio non di voltare pagina, ma di prendere proprio un quaderno nuovo.
Magari però la prossima volta, che qui c’è ancora uno piccolo spazio bianco, giusto giusto per scrivere Fine.

Jacopo Spaziani

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