E se vi dicessimo che esiste un’associazione di poliziotti gay? Intervista con Polis Aperta, LGBT nelle Forze dell’Ordine

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Qualche giorno fa abbiamo incontrato a Firenze Michela e Matteo, due volontari dell’associazione Polis Aperta. Tutti e due lavorano per la Polizia di Stato, nell’ambito informatico e sanitario: un’associazione di poliziotti come tutte le altre, dunque?
Più o meno. 
Perché Polis Aperta si rivolge a una categoria di Forze dell’Ordine che non verrebbe subito in mente: agenti con un orientamento affettivo omosessuale. È ovvio che questo aspetto si scontra con una serie di assunti sociali – da cui tutti prendiamo le mosse – non da poco: la caserma resta uno dei luoghi machi  per eccellenza, e già è stato un cambiamento significativo abituarci alla presenza di fanciulle in divisa; che qualcuno osasse professarsi gay sembrava ancora più distante.
Per questo ci siamo incuriositi, e abbiamo pensato valesse la pena raccontarvi, attraverso le loro parole, la loro attività e il loro impegno. 

RACCONTATECI COME NASCE POLIS APERTA.
Siamo nati nel 2004 ad Amsterdam in occasione del primo congresso europeo dell’EGPA (European GLBT Police Association), una rete europea di associazioni di polizia LGBT: quindi, più su una richiesta europea che non per istanze del movimento LGBT italiano.
Pian piano, alcuni colleghi già attivi in altre associazioni LGBT hanno fatto conoscere sempre di più Polis, sia attraverso i media sia nel movimento italiano. Qui, a dir la verità, all’inizio abbiamo incontrato alcune resistenze a causa dei pregiudizi nei confronti della polizia: essere LGBT da un lato e indossare la divisa dall’altro ci rende oggetto di un duplice stigma.
Adesso, conquistata la fiducia del movimento LGBT e ampliata la connessione con altre associazioni, siamo accettati e rispettati, e pure sull’altro versante abbiamo lavorato molto, conquistando la fiducia di colleghi e superiori attraverso il coming out e corsi di formazione sulle tematiche LGBT.
Oggi siamo l’interlocutore privilegiato dell’OSCAD per quanto riguarda le tematiche LGBT, e nel 2014 abbiamo anche svolto una nostra assemblea presso la loro sede, all’interno dell’edificio della Direzione Centrale della Polizia Criminale a Roma. Un bel segnale. 

MOMENTO: AVETE PARLATO DELL’OSCAD. CHE COS’È?
È l’Osservatorio per la Sicurezza Contro gli Atti Discriminatori. Serve ad agevolare le denunce, indirizzando le vittime di discriminazione verso personale di polizia sensibile alle tematiche LGBT e monitorando le indagini che verranno svolte sui casi.
Si tratta di un organo interforze, fortemente voluto dal compianto Antonio Manganelli, un vero e proprio precursore da questo punto di vista: lo ha progettato, ha messo a disposizione le risorse, ci ha creduto, ha insistito sulla sua necessità. 
L’OSCAD è incardinato nel Ministero degli Interni; l’osservatorio fornisce dati, statistiche e informazioni circa gli atti di discriminazione più diffusi. E la sua attività può essere fondamentale anche per le Camere, che dai suoi rapporti possono prendere spunti per capire come meglio legiferare al fine di scongiurare qualsiasi forma di discriminazione, non solo per via dell’orientamento sessuale. 

QUANTO È ATTIVO L’OSCAD DA QUESTO PUNTO DI VISTA?
L’OSCAD è ancora poco utilizzato soprattutto per due motivi: il suo personale conta pochi elementi (meno di una decina) e chi lavora nelle Forze dell’Ordine non sempre sa che esiste, che sarebbe utile segnalargli ogni caso di discriminazione denunciato.

COSA DIFFERENZIA POLIS APERTA DALLE ALTRE REALTÀ LGBT?
QUALI SONO I VOSTRI SCOPI SPECIFICI?
Per prima cosa non siamo un… “gruppo di aiuto”, o di auto-aiuto, ma neanche un’alternativa alle altre realtà LGBT o ad altre associazioni delle Forze dell’Ordine (ad esempio i sindacati di polizia). 
Come in altre realtà LGBT, collaborano con noi omosessuali e transessuali, ma vi sono anche non omosessuali. 
I volontari fanno parte delle Forze dell’Ordine, ma possono partecipare anche persone esterne ai corpi di Polizia, Carabinieri, Finanzieri…
I nostri obiettivi principali sono:

  • fornire supporto e incoraggiare le persone LGBT in divisa attraverso esempi di coming out positivi nell’ambiente di lavoro;
  • rendere visibili le persone omosessuali in divisa per sradicare i pregiudizi legati all’immaginario comune o a stereotipi di genere, per favorire un progresso sociale;
  • offrire la professionalità dei nostri aderenti e fornire indicazioni utili alla comunità LGBT per la lotta contro i crimini omotransfobici. 

IL COMING OUT  PUÒ ESSERE POSITIVO NEL VOSTRO AMBITO LAVORATIVO?
Assolutamente sì!
Serve a far capire che gli omosessuali sono presenti anche nelle Forze dell’Ordine e, di conseguenza, a rendere consapevoli anche i colleghi: se poliziotti, carabinieri, finanzieri e via discorrendo mostrano che esistono anche al loro interno transessuali o omosessuali, si possono creare migliori relazioni con la comunità.
L’obiettivo è una polizia moderna, vicina ai cittadini, che anche al proprio interno rispecchia le diversità presenti nella società.
I colleghi spesso non sono consapevoli, non hanno gli strumenti adeguati per trattare il problema della discriminazione omo-transfobica. Polis Aperta serve anche a questo, a suggerire le modalità attraverso cui rapportarsi col cittadino o cittadina transessuale o omosessuale vittima di reati. Questo “filo conduttore” ci accomuna alle realtà similari esistenti in Europa (Portogallo, Spagna, Inghilterra, Olanda), ed in effetti è molto importante il contatto con altre associazioni di Forze dell’Ordine presenti negli altri Stati: Polis Aperta ha ad esempio fatto propri alcuni protocolli inglesi per la formazione e l’aggiornamento professionale, molto più avanzati di quelli italiani.

TUTTO QUESTO AIUTA NELLA LOTTA CONTRO I CRIMINI OMOTRANSFOBICI?
Disporre di colleghi consapevoli e pronti ad accogliere la diversità è un punto chiave per favorire le denunce, che sono necessarie e importanti: più denunce ci sono, più dati statistici in merito ai reati omotransfobici avrà a disposizione l’OSCAD.
Il reato di omofobia non esiste ancora, e senza le statistiche dell’OSCAD nessuno si preoccuperà di legiferare, contribuendo a far pensare che la stessa fattispecie di “discriminazione” non esista. 

QUINDI, A QUANTO CAPIAMO, CI SONO POCHE DENUNCE? E COME VENITE INCONTRO A CHI VI CHIEDE SUPPORTO?
Le denunce di discriminazione sono poche. Sono poche per vari motivi: c’è il forte timore di non essere presi sul serio o di una reazione negativa da parte della polizia; si ha paura di rivelare il proprio orientamento sessuale in pubblico e ai propri familiari; nel peggiore dei casi c’è rassegnazione alla violenza cui si è esposti per via del proprio orientamento sessuale “non conforme”, complice anche l’assenza di un reato specifico di odio verso l’orientamento omosessuale o l’identità di genere.

Per chi ha bisogno, nel sito della Polizia dello Stato c’è un link che rimanda alla pagina dell’Oscad a cui è possibile scrivere, se si è subito un reato a sfondo transomofobico, e richiedere indicazioni e supporto su dove poter presentare querela trovando colleghi preparati alla materia.
Inoltre l’OSCAD tutela chi sporge denuncia e lo segue nell’iter della stessa.
Una volta siamo intervenuti in modo diretto a Trieste, quando un ragazzo omosessuale venne picchiato presso la discoteca del Molo Quarto perché stava mano nella mano col suo ragazzo. In quel caso siamo giunti subito sul posto, abbiamo indicato le guide online per fare la denuncia tutelando la persona e la propria riservatezza.

CI SONO TRANSESSUALI ALL’INTERNO DELLE FORZE DELL’ORDINE? COSA COMPORTA IL LORO PERCORSO DI TRANSIZIONE?
Ci sono colleghi transessuali di cui siamo a conoscenza che operano in Polizia Municipale, che hanno eseguito la transizione dopo essere stati assunti e che non hanno variato la loro mansione.
Negli altri corpi sappiamo di casi che si sono verificati in cui colleghe o colleghi sono stati passati dal servizio operativo a delle masioni amministrative, in accordo però con gli stessi interessati. In pratica: non siamo a conoscenza di casi di avversione a queste decisioni.
Spesso però le persone transessuali preferiscono mantenere la privacy sulla propria transizione e non hanno il desiderio che il loro caso diventi pubblico, quindi può darsi che queste decisioni siano state subite per “quieto vivere”. Questo per una ragione: se a livello teorico e scientifico la transessaulità non è considerata una patologia, in ambito militare c’era un regolamento medico in cui sia l’omosessualità sia la transessualità potevano essere condizioni di impedimento all’arruolamento della persona.
Grazie anche alle nostre prime attività, l’aspetto dell’omosessualità è stato tolto da diversi anni e, ultimamente, è stata stralciata anche la parte sulla transessualità.
Purtroppo, però, l’aspetto dell’integrità fisica e della salute hanno molta rilevanza in ambito militare e altri fattori, indirettamente legati alla condizione di transessualità (le operazioni chirurgiche subite e gli effetti estetici lasciati sul corpo, o le terapie ormonali in essere) possono essere utilizzate come causa di preclusione alla vita militare.
La nostra battaglia, comunque, è che sia in polizia sia in ambito militare le procedure cambino in favore di una piena accettazione delle persone transessuali e, come sta avvenendo negli Stati Uniti, vi sia un’apertura esplicita verso queste persone. 

COSA CI DITE DEL RAPPORTO COI VOSTRI COLLEGHI? 
SANNO DI VOI E DELLA VOSTRA ASSOCIAZIONE?
Michela: Il rapporto coi colleghi è assolutamente sereno per ciò che mi riguarda.
Non ho mai nascosto la mia omosessualità e probabilmente il mio essere palese ha facilitato la conoscenza diretta che ha messo in luce il mio essere in quanto persona.
In termini di “discriminazione culturale” in ambito lavorativo, il mio status di donna viene incide più o meno allo stesso modo del mio orientamento sessuale: le battutine e certi modi di dire stereotipanti ci sono, sia nel lavoro sia nel mio vissuto di cittadina, madre e donna.
Di Polis Aperta fino a due anni fa non avevo nessuna conoscenza: oggi ritengo illuminante l’incontro con l’associazione. Portare buone politiche di genere all’interno della mia realtà lavorativa è importantissimo, e per questo sono qui a parlarne e a diffondere questi messaggi.

Matteo: Nemmeno io ne conoscevo l’esistenza fino a due anni fa! Buona parte dei colleghi ignora la realtà di Polis Aperta, e dunque non percepisce appieno le problematiche di cui ci occupiamo. Semplicemente, non ci pensano.
Quando però vengono a contatto con queste situazioni, molti colleghi prendono coscienza e cambiano approccio. Credo che abbattere gli stereotipi, anche a livello di semplice linguaggio, sia uno degli aspetti più importanti. 

PANE AL PANE E VINO AL VINO: SUBITE DISCRIMINAZIONI? 
COME REAGISCONO I COLLEGHI QUANDO VENGONO A SAPERE DI POLIS?
Michela: I miei colleghi sono a conoscenza della mia omosessualità e personalmente non ho mai subito discriminazioni da loro. I problemi in servizio possono sorgere se non c’è coming out, ad esempio per paura dei pregiudizi.
Immaginate la scena: il collega con cui si è in pattuglia si comporta male, magari discriminando un soggetto fermato. Se anche tu sei omosessuale, le tue difficoltà aumentano: non stai a fargli tante storie sulla scorrettezza del suo atteggiamento, perché temi a tua volta di essere discriminato.
Può essere interessante un episodio capitatomi durante i primi anni di servizio effettivo, presso una stazione ferroviaria italiana. Ci troviamo a dover fermare una transessuale, operato. In questi casi non possiamo lasciarli andare in bagno da soli, e questa persona domandava espressamente di essere accompagnata da me. Il mio caposquadra di allora, persona attentissima e professionale, capì la situazione e non fece alcun problema, ma non sempre si ha la fortuna di avere al proprio fianco un collega così scrupoloso, e può saltar fuori anche qualche frase non proprio elegantissima.

Matteo: Le reazioni di fronte alla scoperta di Polis variano, ovviamente, a seconda delle diverse personalità che si trovano a vestire la divisa. Le Forze dell’Ordine sono uno specchio della società: vi è chi discrimina e tiene le distanze, temendo di essere tacciato di omosessualità a sua volta; vi è però anche chi accoglie e si dimostra aperto.
A volte si tende a identificare qualunque volontario di Polis Aperta, anche gli eterosessuali come me, come omosessuali per il semplice fatto di appartenere all’associazione. Tuttavia il contatto coi volontari di Polis Aperta può anche essere utile per favorire qualche coming out, che come abbiamo detto è importante. In generale, gran parte dei colleghi tende per lo più a discriminare gli omosessuali che non si dichiarano rispetto a quelli che si dichiarano.

Michela: La conclusione della mia precedente relazione eterosessuale e l’inizio di quella omosessuale credo sia stato di fatto il mio primo coming out “ufficioso”, anche perché la mia compagna fa parte anch’essa delle Forze dell’Ordine. La cosa è però emersa ufficialmente durante un corso di aggiornamento professionale tenuto dalla sigla sindacale SILP, di cui faccio parte, al quale personale dell’Oscad aveva preso parte. Qui ho portato la mia esperienza come esempio di operatore ad orientamento omosessuale all’interno della Polizia di Stato. Ciò dimostra anche, in generale, i buoni rapporti che intercorrono tra Polis e altre organizzazioni delle forze dell’ordine, come i sindacati.

E CON I SUPERIORI? 
FUNZIONA ALLO STESSO MODO?
Sì, il discorso vale anche con i superiori: c’è chi discrimina e “alza un muro”, come c’è chi si mostra aperto e non ha problemi. 
Si tratta, ancora una volta, di un problema di soggettività: come esiste il barista scortese, così può esistere il poliziotto omofobo, ma generalizzare sarebbe un errore. 
Non ci risulta comunque che ci siano resistenze particolari, anche perché il Ministero dell’Interno e i questori sono a conoscenza delle relazioni sentimentali che abbiamo attraverso i rapporti informativi, in cui dobbiamo dichiarare dove abitiamo, con chi, se abbiamo una relazione, etc. 
Al contrario, sapere della nostra esistenza può essere d’aiuto per un superiore: per esempio, nel rilascio dei permessi per una manifestazione LGBT e nella gestione dell’ordine della stessa.

Michela: Io ho partecipato alla manifestazione del 23 gennaio con la bandiera di Polis Aperta. Sono andata a salutare la mia funzionaria che era nel servizio d’ordine e lei mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Tutto molto normale, no? (sorride, NdR)

COME VI RAPPORTATE INVECE CON I CITTADINI? 
VI DICHIARATE A LORO OPPURE NO?
Michela: Ti dirò che ho più paura a dichiarare di far parte del corpo di polizia che non a dichiararmi omosessuale. Come ho già sottolineato lo stereotipo rispetto alle Forze dell’Ordine è molto forte, e in generale viviamo in una società che si porta addosso un po’ troppe tensioni pregresse.
Ad esempio, durante una manifestazione di qualche anno fa mi sono avvicinata, insieme alla mia compagna, ai colleghi impiegati nel servizio d’ordine: da un parte i colleghi ironizzavano sul nostro stare “in piazza con froci e comunisti”, dall’altra anche quelli che erano lì per manifestare come noi guardavano storto. Non è stata una bella sensazione.

Matteo: Coi cittadini può essere utile far notare che ci sono omosessuali anche tra le forze dell’ordine, dipende dai casi: se bisogna intervenire contro discriminazioni LGBT e la cosa sembra indispensabile, possiamo dirlo; qualora non serva, tendiamo a darlo per scontato, è superfluo sottolinearlo, soprattutto se non vi sono atteggiamenti discriminatori.

INUTILE CHIEDERE, A QUESTO PROPOSITO, QUALE SIA LA VOSTRA POSIZIONE RIGUARDO AL DDL CIRINNÀ E ALLE POLEMICHE CHE STA SOLLEVANDO… 
Noi siamo assolutamente favorevoli, anzi sarebbe necessario che la legge passasse il più presto possibile.
In realtà, per come è stato, formulato lo vediamo già come un gioco al ribasso: vogliamo andare ancora più indietro? [L’intervista è avvenuta quando la discussione sul DDL era ancora in corso, NdR]
Come operatori di diritto, vedere perpetrarsi la condizione di discriminazione tra coppie etero e coppie omosessuali è una ferita: per chi crede nel diritto e nei diritti, questa situazione mina la motivazione che ci ha spinto a fare questo mestiere.

Michela: Spero veramente che qualcosa cambi, vorrei poter finalmente sposare la mia compagna e che il nostro nucleo familiare abbia rilevanza sociale. Spero in questi diritti non solo per la generazione dei miei figli, ma anche per me e la mia compagna, per tutti noi.

doc. NEMO e Daniela Brunelli

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