“E all’improvviso la tua vita non è più quella di prima” – Cronache di una giornata a Mirandola

Si potrebbe parlare del silenzio assordante del centro storico di Mirandola, ora “zona rossa” presidiata da Vigili del Fuoco e Forze dell’Ordine.

Si potrebbe parlare delle macerie, perché le macerie colpiscono, non c’è niente da fare.

Si potrebbe parlare della sensazione di desolazione che assale chiunque percorra le strade martoriate dal terremoto.

Ci si potrebbe concentrare sull’odore di calce, sui manichini caduti nelle vetrine dei negozi e ora ammassati l’uno sull’altro, o sulle tazzine rovesciate nei bar, poggiate su giornali che datano 29 maggio.

Si potrebbe, perché passeggiare per le strade di San Felice o di Mirandola l’8 giugno del 2012 vuol dire ripetere continuamente, tra sé e sé: è tutto come raccontano, esattamente come raccontano.

Uno scenario post atomico da film di fantascienza, bloccato in un fermo immagine doloroso.

Si potrebbe, ma non lo farò, perché non è la disperazione che ho toccato con mano a Mirandola.

L’ingegno italico inventa piazzole per la sosta, tende improvvisate e case fuori dalle case.

I volti degli adulti sono segnati dalla fatica, dalle occhiaie, dal nervosismo e dalla tensione, ma nel mentre i bambini giocano a rincorrersi e rubano il parmigiano per merenda, incuranti di tutto.

La Protezione Civile nel campo degli sfollati cucina peperonata e pasta e fagioli per 1500 persone, mentre di fianco hanno allestito le aree di preghiera, tutte rigorosamente di pari dimensioni, per la comunità sikh, quella musulmana e quella senegalese.

I ragazzini si sono anche azzuffati, già che c’erano, ma dev’essere stato a causa della confusione per tutte quelle aree di preghiera. Di sicuro si saranno chiariti, almeno fino alla prossima partita di pallone.

I sindaci parlano al telefono convulsi e si trovano all’improvviso famosi, loro che prima facevano tutt’altro ed erano dei tranquilli sindaci di tranquilli piccoli comuni.

I poliziotti fanno la guardia a un centro storico fantasma, con la sola compagnia di televisori accesi, abbandonati dalle persone in fuga e ancora mai spenti.

Ad ogni passo si ascolta un racconto: storie di imprenditori che vogliono tornare a lavorare, di famiglie che non vogliono dormire a casa per paura di venire colti di sorpresa da una scossa, di coppie costrette ad andare via, di persone che attendono, storie di volontari, di professionisti, di emotivi o di burberi pragmatici.

Storie con un prima e con un poi. Con un futuro.

Le banche hanno costruito in due giorni filiali provvisorie in container spuntati come funghi, disegnando anche le strisce pedonali di fronte e costruendo il ponticello di metallo.

L’ufficio postale ha messo il cartello e i gli impiegati lavorano sui banchi di scuola.

Gli uffici comunali sono sotto i gazebo, all’aperto, con computer, stampanti e tutti gli armamentari del caso. Se vuoi nascere oggi puoi essere registrato, bel bambino, anche se c’è stato il terremoto.

Si sente parlare con accento emiliano, napoletano, siciliano, veneto, lombardo, piemontese. Spicca anche del rumeno con accento romagnolo, che è splendido.

A ogni angolo spunta un volontario. Siamo una nazione di arrabbiatissimi, ma alla fine partiamo e andiamo. Così, mentre ricostruiamo, possiamo lamentarci tutti assieme.

Ma nel frattempo tiriamo su di nuovo i muri.

Il terremoto porta via con sé interi pezzi di vita, di famiglie, di lavori, di identità. E sappiamo cosa succede nel nostro Paese quando arriva una catastrofe naturale. Il pensiero dell’Abruzzo brucia sulla pelle dell’Emilia-Romagna come sale su una ferita aperta.

Eppure oggi non ho visto questo. Ho paura di questo, ma non l’ho visto. E quindi non lo racconto, ché di Cassandre siamo pieni.

Io ho visto palazzi distrutti e, poco distante, una meravigliosa peperonata per 200 persone: mi piace pensare che grazie alla peperonata tireremo di nuovo su i palazzi.

C.

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