Sono già usciti almeno tre articoli intelligenti a commento e corredo delle sciagurate parole di Giuliano Poletti, ministro del lavoro dell’attuale Governo Gentiloni e prima ministro del lavoro del Governo Renzi. Un fedelissimo della new wave democratica, insomma.
Gli articoli in questione sono a firma di Alessandro Gilioli su L’Espresso, di Veronica Gentili sul Fatto Quotidiano e di Francesco Cancellato su Linkiesta: hanno tutti il pregio di riflettere sulle parole del ministro e sulle loro implicazioni e conseguenze.
Una pratica a cui lo stesso ministro dovrebbe indugiare, possibilmente prima di dare aria ai molari.
Tutti e tre, ad esempio, sottolineano una banalità che a Polly pare sfuggire: egli confonde il consiglio “pane e salame” dato dallo zio alla grigliata in campagna e la responsabilità causata dalla sua posizione, che è sempre una posizione ufficiale.
Se Polly apre bocca, è il suo dicastero che apre bocca.
È questo il punto su cui vale la pena spendere due parole: la capacità di Poletti di parlare in pubblico. Soprattutto stante il suo essere percepito – giusto o sbagliato che sia – come homo novus: in teoria, Poletti è un elemento integrante della risposta elaborata in seno al PD (sempre in teoria, il principale partito di governo) alla crisi politica contemporanea.
Non solo: sempre in teoria, il suo ministero è uno degli scranni fondamentali di governo, e lo è ancora di più in tempi di disoccupazione giovanile galoppante.
Dovrebbe avere carisma, polso della situazione, misura nelle azioni o almeno nelle dichiarazioni; eppure, il suo curriculum in tema è desolante.
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Sui giovani costretti a emigrare per trovare lavoro: “Bene così: conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi. Bisogna correggere un’opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100 mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100 mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei “pistola”. Permettetemi di contestare questa tesi“. Fano, 19 dicembre 2016.
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- Sulle lauree: “Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21”. Verona, 26 novembre 2015.
Giova ricordare che lui la laurea non l’ha conseguita. Mai.
- Sulle lauree: “Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21”. Verona, 26 novembre 2015.
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- E l’ultima, magnifica: “Nel lavoro si creano più opportunità giocando a calcetto che a spedire curricula”. Bologna, 27 marzo 2017.
Insomma, tutte le volte in cui Poletti parla in un incontro pubblico c’è un forte rischio di travisare le sue parole. E in tre occasioni è effettivamente capitato: il ministro poi è corso ai ripari spiegando meglio, circostanziando, contestualizzando, approfondendo.
Ne consegue che il caro Polly, quando parla pubblicamente, è grossolano, impreciso e superficiale nel descrivere la realtà e a proporre i rimedi immediati.
Questi sono errori gravissimi, nella comunicazione politica.
Perché lo fa? Nella migliore delle ipotesi, lo fa per foga ad essere popolare, diretto, semplice, paternalista, o anche solo simpatico. Lo fa per “abbassare” il livello del dibattito, nell’illusione di generare consenso.
Una delle sconfitte del renzismo risiede nel confondere semplicità e semplicismo: una sovrapposizione che va di pari passo alla distonia tra il leader (un cavallo di razza, a livello di comunicazione) e la sua corte di fedelissimi (molto, molto, molto più rappattumati). È, in altre parole, l’ennesima conferma della bassa capacità di Renzi nel selezionare la sua classe dirigente, i suoi pretoriani.
Il confronto, impietoso, con la Prima Repubblica è una pietra tombale: i vari Andreotti, Craxi, Almirante, Occhetto ed accoliti vari erano programmati per essere istituzionali, formali, ingessati, a costo di essere noiosi.
Ma erano precisi: non davano l’idea di un dilettantismo al potere; un dilettantismo arrogante e facilone, che suggerisce di piegarsi ad uno status quo a cui non gli passa per l’anticamera del cervello di partecipare (e la conferma la si trova nei vendicativi articoli dal titolo “Che lavoro fa il figlio di Poletti?“. Risposta: campa di fondi pubblici).
Un dilettantismo arrogante e facilone che provoca rabbia, perfino in quei moderati non ancora pervasi dal “tutti a casa”, dal grillismo di ripicca, dal cupio dissolvi che travolgerà tutti.
Umberto Mangiardi
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