“Dove sono tutti quanti? Se ci sono così tante civiltà evolute, perché non abbiamo ancora ricevuto prove di vita extraterrestre come trasmissioni di segnali radio, sonde o navi spaziali?”
(Enrico Fermi, 1950)
Stavolta veniamo a parlare dell’argomento preferito dai complottisti di tutto il mondo, nonché quello più “creduto” in giro per il mondo, ossia l’esistenza dei dischi volanti (o, se preferite, UFO). Prima delle piccole precisazioni di tipo semantico: UFO in realtà significa Oggetto Volante Non Identificato, ma per antonomasia questi oggetti sono diventati sinonimo di creature extraterrestri che vengono sulla terra per fare… (boh? Cosa? Ci sono le più svariate teorie sui perché).
Iniziamo subito con un grosso distinguo: una cosa è la possibilità che delle civiltà extraterrestri (o comunque degli esseri animati) esistano, siano esistite o esisteranno, altra è che i cosiddetti UFO che riscontriamo sul nostro pianeta possano essere ricondotti a delle manifestazioni extraterrestri.
Questo articolo tratta solo del primo caso (per gli altri, ossia per le “bufale”, vi rinvio ai prossimi due articoli). Cerchiamo di vedere come la scienza ha cercato di dare la risposta alla domanda di Fermi e alla domanda “Siamo soli nell’Universo?”. E’ una domanda che la scienza solo da poco ha iniziato a porsi, questo grazie anche alle nuove scoperte in campo tecnologico, che hanno mostrato effettivamente la possibilità di viaggiare nello spazio, in campo astrofisico (come la scoperta di pianeti al di fuori del Sistema Solare) e in campo biologico (teoria dell’evoluzione della vita e scoperta dei cosiddetti estremofili).
Dal punto di vista scientifico abbiamo due teorie principali riguardo la vita in altri pianeti: l’ipotesi della rarità della Terra (ossia siamo soli nel cosmo) e il cosiddetto principio di mediocrità che cercano di rispondere al cosiddetto “Paradosso di Fermi”, che è semplicemente riassunto nella frase iniziale di questo articolo.
Esaminiamo da vicino la prima teoria, formulata dal paleontologo Peter Ward e dall’astrofisico Donald Brownee. Questa teoria parte dall’esperienza della vita su questo pianeta, che è comunque frutto della presenza di diversi cofattori casuali che permettono lo sviluppo della vita, come noi la conosciamo (o non casuali per chi crede, come vorrebbe il cosiddetto “disegno intelligente”, che è però una spiegazione religiosa o filosofica a questa casualità scientifica).
Prendiamo quindi un pianeta qualunque e vediamo quali dovrebbero essere le condizioni necessarie, secondo questa teoria, perché la vita possa svilupparsi.
Una tra le prime condizioni essenziali per la vita è che il nostro eventuale pianeta si trovi in una regione abitabile della galassia. Noi uomini abbiamo una visione poetica dell’universo là fuori, un universo statico e immutabile. Ma così non è: nell’universo e nella nostra Galassia avvengono dei fenomeni estremamente energetici: buchi neri, raggi cosmici e emissioni di raggi ad energie elevatissime. Noi ci troviamo in una regione tutto sommato “tranquilla” e relativamente periferica, sufficientemente distante dal buco nero al centro della nostra Galassia. Ma non deve essere troppo in periferia, perché la metallicità (ossia la presenza di metalli nelle stelle, fondamentale per la vita) diminuisce al crescere con la distanza dal centro.
Un’altra condizione fondamentale è che la stella attorno alla quale il pianeta orbita sia di un certo tipo: le stelle più grandi emettono una quantità di radiazioni UV più elevate (legge di Planck del corpo nero) e inoltre hanno una vita breve, prima di esplodere violentemente come supernove. Non deve neanche essere troppo piccola, perché sennò il pianeta dovrebbe essere molto vicino e quindi avremmo una rotazione sincrona (ossia il pianeta mostrerebbe alla stella la stessa faccia, come la luna con la Terra). Altra condizione è che la stella non deve far parte di un sistema binario, sia per il fatto di disturbi nell’orbita, sia per il fatto che queste stelle hanno una vita breve a causa delle interazioni tra una stella ed un’altra.
Questo pianeta deve stare in una regione abbastanza “stretta”, detta regione abitabile: né troppo vicina (sennò la
temperatura sulla superficie sarebbe troppo elevata), né troppo lontana per il problema opposto. Il pianeta deve essere roccioso e non gassoso. Deve essere sufficientemente grande per avere un’atmosfera non rarefatta, ma neanche troppo grande perché attirerebbe su di sé la maggior parte dei corpi celesti come asteroidi o comete (come Giove). L’atmosfera inoltre deve contenere ossigeno e acqua, anche se diversi “esobiologi” hanno ipotizzato degli esseri che sfruttano processi biochimici diversi dai nostri per la vita (basati sul metano o sull’ammoniaca), e la scoperta dei cosiddetti microorganismi estremofili, che vivono in assenza di ossigeno e che usano metano o anidride carbonica, ha confermato che è possibile che la vita si possa sviluppare in condizioni chimiche diverse da quelle che conosciamo noi.
Passiamo invece alla teoria opposta, ossia il cosiddetto “principio di mediocrità”, che deriva idealmente dal principio Copernicano. In questa ipotesi la Terra non sarebbe altro che uno dei tanti pianeti nei quali la vita si è sviluppata. Questo principio è stato formulato da due astrofisici americani: Carl Sagan e Francis Drake.
Uno di loro, Francis Drake, nel 1961 ha proposto un calcolo teorico (o meglio un’equazione teorica) per stimare il numero di civiltà extraterrestri in grado di interagire con noi nella nostra Galassia.
Dove N è il numero di civiltà extraterrestri teorico (che è il dato che vogliamo ricavare), R* è il rate di formazione di nuove stelle nella nostra galassia, fp è la frazione di stelle nella nostra galassia che possiedono dei pianeti, ne è il numero medio di pianeti in ogni sistema solare in grado di ospitare vita (ossia all’interno della cosiddetta “fascia abitabile”), fl è la frazione dei pianeti precedenti nei quali si è sviluppata effettivamente la vita, fi è la parte di fl nella quale la vita è diventata “intelligente”, fc è la frazione di questi ultimi in grado di comunicare con noi, mentre L è la durata media di una civiltà evoluta.
Come ovviamente potete notare, quasi tutti i termini di questa equazione possono essere ricavati per “stima”; ben pochi sono certi.
Vediamo quali furono le assunzioni di Drake
R* è un parametro che può essere ragionevolmente noto, perché parametro astrofisico e fu scelto pari a 10: da dati scientifici si è assunto che ogni anno nella Galassia abbiamo la formazione di circa 10 nuove stelle. Questo è l’unico parametro realisticamente stimabile dal punto di vista scientifico.
fp fu assunto pari a 0.5, ossia secondo Drake 1 stella su 2 nella Galassia ospita un sistema solare
ne fu assunto pari a 2: secondo Drake in media ogni sistema solare ha circa 2 pianeti abitabili, cosa dedotta dal nostro Sistema solare: nella fascia abitabile, infatti troviamo la Terra e Marte.
fl fu assunto ottimisticamente pari a 1: ogni pianeta nella fascia abitabile sviluppa delle forme di vita. Questa ipotesi entra, però, in contraddizione con il primo dato. Se è vero che nel nostro sistema solare esistono 2 pianeti abitabili (Terra e Marte) solo nel primo abbiamo delle prove (ossia noi stessi) per le quali la vita si sia sviluppata. Per Marte non abbiamo ancora questo tipo di prova.
fi e fc furono entrambi posti uguali a 0.01, proprio perché il percorso evolutivo che ha portato la vita a passare dai microorganismi all’homo sapiens fino ad arrivare ai giorni nostri è stata incredibilmente tortuosa e alquanto lunga.
L è, secondo Carl Sagan, che fu colui che stimò effettivamente il numero, il fattore più importante. Sagan considerò che la durata media della fase comunicativa di una civiltà fosse (e fu estremamente ottimista) di 10.000 anni.
Mettendo tutti questi numeri nell’equazione N diventa uguale a 10 (Drake, 1961). Ovviamente altri autori hanno usato questa equazione con altri parametri e hanno trovato risultati nel range tra 600,000 (ottimismo puro) a 0,0000001 (piuttosto pessimisti).
Ovviamente questa equazione e questi risultati furono trovati negli anni ’60, quando l’ipotesi di trovare pianeti extrasolari era pura fantascienza. Ma il 6 ottobre 1995 tutto è cambiato: durante una conferenza a Firenze l’astrofisico svizzero Michel Mayor rivelò al mondo di aver scoperto il primo pianeta extrasolare. Da quel giorno ad oggi è stata scoperta l’esistenza di ben 864 pianeti fuori dal sistema solare, per lo più giganti gassosi (simili a Giove). Ma il 29 settembre 2010 fu scoperto un pianeta attorno alla stella Gliese 581, ad (appena) 20 anni luce da noi del tutto simile alla Terra e dentro la fascia abitabile. Sugli 864 pianeti scoperti fino ad adesso, 8 pianeti soddisfano le condizioni astronomiche per sviluppare la vita. Una stima successiva di N è stata negli anni 2000 di 23.
Carl Sagan, uno tra i più grandi astrofisici del XX secolo anche sotto il profilo umano, su una cosa aveva ragione. Il fattore determinante di tutta questa equazione è comunque L, che meriterebbe da solo un articolo: ossia la stima di quanto tempo una civiltà tecnologicamente avanzata possa durare. E questo non c’entra nulla con la scienza, c’entra con la civiltà stessa. Molti autori hanno proposto che il paradosso di Fermi possa venire risolto molto semplicemente senza affermare l’ipotesi della rarità della Terra, ma guardando solo e soltanto a quello che accade nel nostro pianeta: gli imperi e le nazioni, anche quelle più forti, sono (hegelianamente) cadute nello spiegarsi della Storia nel tempo fisico e, come ho già scritto in precedenza, la nostra esistenza sulla Terra è minacciata da noi stessi (bombe atomiche, riscaldamento globale, squilibri, guerre). La domanda vera da farci è: se effettivamente una civiltà extraterrestre cercasse di mettersi in contatto con noi, noi esisteremmo ancora?
Alessandro Sabatino