“Dove sono tutti quanti? Se ci sono così tante civiltà evolute, perché non abbiamo ancora ricevuto prove di vita extraterrestre come trasmissioni di segnali radio, sonde o navi spaziali?”
(Enrico Fermi, 1950)
Nella scorsa puntata abbiamo visto due risposte scientifiche per risolvere il paradosso di Fermi. Passiamo ora ad esaminare come gli astrofisici hanno direttamente o indirettamente cercato di risolvere in modo sperimentale il paradosso.
La prima grossa categoria che andiamo ad esaminare è quella di scienziati che hanno dedicato parte della loro esistenza a cercare (in maniera scientifica e rigorosa) una maniera per comunicare con possibili creature extraterrestri. E qui ritroviamo uno dei compagni di viaggio che abbiamo incontrato nella prima puntata, una figura che ha ispirato astrofisici di tutto il mondo e al quale è idealmente dedicata questa serie di articoli: Carl Sagan. Nella sua straordinaria esistenza, conclusasi purtroppo a 62 anni dopo una lunghissima lotta contro un tumore, ha investigato in modo scientifico il fenomeno degli UFO; ha dimostrato che è possibile formare degli amminoacidi (la base della nostra vita) da composti chimici semplici con solo l’ausilio di radiazioni; soprattutto ha “fondato” nel 1974 insieme a Drake il progetto SETI (Search for Extra-Terrestrial Intelligence). Ed è proprio di questo progetto che andiamo a parlare.
Il progetto SETI nasce dall’idea di riuscire a trovare e a comunicare con delle civiltà tecnologicamente avanzate che abbiano avuto la stessa idea (quella di cercare nello spazio un’altra civiltà usando – per comunicare – delle frequenze radio). Il problema, concettualmente semplice, presentava diversi problemi di tipo pratico. Il primo problema è che non si ha alcuna idea su cosa effettivamente cercare, non si ha idea come possa essere fatto un segnale alieno, a che frequenza cercarlo, dove cercarlo. Altro grosso problema pratico è il fatto che il cosmo, in particolare la nostra galassia, ci bombarda quotidianamente di segnali radio, dovuti a vari processi fisici e molecolari e anche alla cosiddetta radiazione di fondo cosmico, che è dovuto all’eco del big bang; quindi abbiamo del “rumore” nel quale potrebbe confondersi l’eventuale segnale alieno se troppo poco energetico.
Ma studiando proprio questo fondo si è trovata una brillante soluzione teorica. Un possibile criterio, infatti, per individuare un eventuale segnale alieno potrebbe essere cercare un segnale che ha un’energia superiore a questa radiazione di fondo, un segnale “anomalo” rispetto a quello che quotidianamente viene ricevuto.
Il limite superiore, invece, è un limite dovuto alla composizione chimica della nostra atmosfera. Qui infatti troviamo l’interferenza causata dagli atomi di ossigeno e di acqua dentro l’atmosfera. Una frequenza particolarmente importante è la frequenza emessa dall’idrogeno neutro, ossia 1.420 GHz (che viene usata dai radioastronomi per cercare nubi di idrogeno all’interno della nostra galassia e quindi per studiare la struttura stessa della nostra galassia). Una sorgente “anomala” a questa frequenza potrebbe effettivamente essere un segnale proveniente da un altro mondo.
Decisi dunque i parametri, usando diversi radiotelescopi, in particolare quello di Arecibo, venne scandagliato il cielo alla ricerca di questi segnali. Nel 1974 viene mandato un messaggio dal radiotelescopio di Arecibo verso l’ammasso globulare M13, in questo messaggio una sequenza di 0 e di 1 (quindi in codice binario) in una matrice 23×73 (scelti perché numeri primi) nella quale viene trasmessa la posizione del nostro pianeta all’interno della Via Lattea, la figura stilizzata dell’essere umano e altre cose. Poiché l’ammasso M13 dista 25.000 anni luce, prima di 50.000 anni (il tempo che impiega la radiazione a fare avanti e indietro) non avremo certamente una risposta. Una targa raffigurante l’essere umano, il nostro pianeta, la sua posizione e un messaggio di pace sono presenti sulla navicella Pioneer 10, una tra le navicelle della NASA (ovviamente senza equipaggio) che hanno lasciato il nostro sistema solare e che vagano nello spazio.
Questa è stata fino agli anni ’80 l’investigazione di coloro che hanno cercato in maniera scientifica segnali da altre civiltà.
Ma dal 1995 qualcosa è cambiato. Come abbiamo già visto nella prima puntata di questo viaggio, il 6 ottobre 1995 fu annunciato al mondo dall’astrofisico svizzero Michel Mayor, la scoperta del primo pianeta extrasolare.
Si trattava di un pianeta gassoso, orbitante intorno alla stella Pegasi 51, a 50 anni luce dalla Terra. Il pianeta, battezzato Bellerofonte, fu scoperto attraverso la variazione della lunghezza d’onda della luce della stella, sfruttando il cosiddetto effetto Doppler. L’effetto Doppler è sempre stata una
“brutta bestia” per molti studenti tra i banchi dei licei e molti sicuramente hanno rimosso cosa sia, quindi è d’obbligo una breve spiegazione (nella didascalia a lato). Il secondo metodo è più immediato: ossia vedendo se nella luce proveniente da una stella ci sono variazioni di intensità luminosa. Questo è infatti segno che un “qualcosa” gli è passato davanti. Se questa variazione è periodica, molto probabilmente quel qualcosa è un pianeta.
Anche qui possono venire stimate sia la distanza che la massa del pianeta. Ultimo metodo è quello della misura diretta: ossia vedere direttamente il pianeta senza questi due metodi. Questo è stato possibile con lo sviluppo di nuovi telescopi molto più potenti di quelli degli anni passati.
La statistica ci dice che almeno il 40% delle stelle ha un sistema planetario, le stelle simili al Sole hanno una percentuale compresa tra il 20% e il 60% (quindi Drake non si era sbagliato di molto fissando il parametro a 0.5 nella sua equazione). Fino ad oggi sono stati scoperti (dati del 22 febbraio 2013) ben 864 pianeti, dei quali almeno 8 hanno le caratteristiche per poter ospitare potenzialmente la vita.
Altra scoperta di grande rilievo, questa volta non nel campo astrofisico, è stata fatta in precedenza con l’individuazione di forme di vita unicellulari, per lo più batteri, i quali erano in grado di vivere in condizioni estreme. Furono per questo battezzati estremofili, come gli acidofili che riescono a vivere fino a pH 2.0 (ossia l’acidità compresa tra quella della polpa di un limone e quella di una batteria per l’elettricità) o come i termofili (che resistono fino a 80°C) e gli ipertermofili (che vivono a temperature fino a 120°C). Questo ci dice come esistono delle forme di vita che si sono adattate a vivere in ambienti estremi, come vicino ai vulcani sottomarini o dentro i geyser, o addirittura al Polo Sud e che la complessità della vita è difficilmente riducibile alla sola sopravvivenza umana.
La terza grande scoperta fu fatta a cavallo tra il 2005 e il 2012. Infatti le missioni Mars Express, la missione Phoenix e la sonda Curiosity hanno trovato delle sostanze chimiche che fanno supporre che in un tempo lontano Marte ospitasse effettivamente delle forme di vita (anche solo unicellulari): la missione Mars Express ha individuato nell’atmosfera marziana tracce di metano e di formaldeide, entrambi segni probabilmente di forme di vita microbiche nel passato; mentre le missioni Phoenix e Curiosity hanno effettivamente scoperto che probabilmente su Marte c’è stata (e forse c’è ancora) dell’acqua, anche allo stato liquido.
L’ipotesi di vita extraterrestre è quindi più che un’ipotesi: è diventata ormai una teoria, grazie anche alla genialità e all’intuito di Carl Sagan, che fu uno tra i primi che sostenette l’importanza di studiare Marte, proprio perché pensava che lì si fosse effettivamente sviluppata della vita. E così probabilmente è stato in tempi remoti. Nelle prossime puntate di questo meraviglioso viaggio cercheremo di capire meglio il fenomeno degli UFO da un punto di vista scientifico del fenomeno, cercando di analizzare i principali avvistamenti alieni nella storia e di darne una spiegazione razionale (se possibile).
Alessandro Sabatino