
Disastro, comunque la si voglia vedere. Disastro per il Paese e per il Pd, ex primo partito d’Italia ora tallonato se non superato dalla dirompente rabbia, protesta e indignazione del MoVimento 5 Stelle.
Il Paese si consegna all’ingovernabilità nella migliore delle ipotesi; a Berlusconi nella peggiore. Il Senato è già in mano al Popolo della Libertà, con Sicilia, Lombardia, (pare) Campania e addirittura la Puglia che lo stanno sostenendo: quella Puglia dell’Ilva, quella Puglia di Vendola, quella Puglia di D’Alema.
Su quella Puglia, prima di passare in rassegna tutto il resto, la coalizione di centrosinistra dovrà interrogarsi a lungo. Perché perdere dove si è convinti di avere una piazzaforte è più di una delusione: è una certificazione di incapacità, incapacità a leggere il proprio elettorato e a spronarlo.
Il Partito Democratico ha fallito, ancora una volta. Senza cedere – per ora – al canto delle sirene renziane (“Noi lo avevamo detto, bisognava votare Renzi, Renzi era la soluzione”), il dato è vibrante: il Pd di Veltroni, neonato e pieno di contraddizioni, era al 33%. Questo galleggia tra il 29 e il 30.
La dirigenza non solo non è riuscita a capitalizzare (nell’ordine) il disastro berlusconiano, la crisi del novembre 2011, la stasi del governo tecnico e il successo delle primarie; non è riuscita – che è peggio – a tenere botta al populismo di Grillo e ai vaneggiamenti dell’ultimo Berlusconi.
La dirigenza si è confermata per quello che si presumeva: ottimi tecnici (almeno, lo sono in teoria: a parte Bersani, non hanno ancora avuto possibilità di dimostrarlo), pessimi comunicatori, pessimi compagni per l’anima sfibrata e sfiduciata del Paese. In una democrazia seria, sarebbero chiamati alle dimissioni.
Si diceva delle due ipotesi: se va bene, si finisce come il Parlamento greco. E cioè un Parlamento ingestibile, capace solo di varare una legge elettorale ancora più selettiva per andare a immediate elezioni: in quel caso, sappiatelo, Berlusconi continuerà ad avere il 30% e Grillo salirà al 35%.
Se va male, molto male, Berlusconi prevarrà anche alla Camera: e perciò le tasse (forse) diminuiranno in quantità risibile, a fronte di un ritorno ingente alla pratica del debito pubblico. Una pratica che i mercati finanziari mondiali non apprezzeranno, massacrandoci.
C’è da ricordare però un dato: il Presidente della Repubblica è a fine mandato, e perciò siamo nel cosiddetto semestre bianco. Le camere non possono essere sciolte da Napolitano. Questo significa che codesto Parlamento disastrato sarà comunque chiamato ad eleggere il suo successore al Quirinale.
Si preannuncia battaglia anche lì: se si pensa che, al netto dei giudizi discordi e delle campagne di stampa delegittimanti, Napolitano è stato uno dei pochi capaci a mantenere la barra a dritta in questo difficile biennio, si capisce perché avere incertezza anche sul peso politico del Presidente della Repubblica potrebbe essere, per tutti, il colpo di grazia.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi
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