Negli ultimi mesi è stata condotta una ricerca scientifica sul militante-medio dell’Apparato. Il sondaggio è volto a mettere in luce gli atteggiamenti, le risposte e le argomentazioni di tali militanti in caso di discussione politica con i sostenitori del nemico numero uno del Partito: Renzi.
Abbiamo notato che l’apparatista è tendenzialmente meno fresco e veloce nella risposta rispetto al renziano, ma ben più solido nelle sue posizioni, frutto di anni e anni di rigida istruzione. Il renziano, parlando, si rivolge non solo al suo interlocutore ma a chiunque abbia intorno: soffre di una evidente sindrome da palco; il militante apparatista invece comincia col guardarti negli occhi, poi man mano abbassa lo sguardo e lo focalizza su un punto fermo (preferibilmente per terra) alla ricerca della necessaria concentrazione.
Importante punto a favore dell’apparatista è la totale certezza di essere nel giusto. Questo porta all’intima convinzione che non sia possibile non pensarla come il Partito, a meno che non si sia del tutto irrazionali o in palese ed evidente malafede. Comunque, in caso di scontro orale, l’apparatista dispone di una lunga lista di ficcanti espedienti retorici, una fraseologia sofisticata che si concretizza in:
- Renzi pensa solo alla comunicazione;
- il PD non deve esser il partito di un leader;
- è colpa di Berlusconi (questa è interiorizzata a tal punto che viene utilizzata sempre, anche fuori contesto).
La tattica della risposta preconfezionata è di grande impatto, oltre che piuttosto semplice da assimilare. Certo, è un tantino stantìa e forse superficialotta, ma queste son quisquilie belle e buone. Ha tuttavia un grave limite: le frasi fatte non si aggiornano in tempo reale, ragione per cui l’apparatista non riesce ad essere sempre “sul pezzo” (ad esempio, non è ancora stata registrata “Renzi non è di sinistra perché ha presentato il libro di Cavalli”).
Appunti semiotici: l’apparatista non dice “PD”, dice “il Partito”. Soffermandosi più a lungo sulla P, riuscirà a rendere la maiuscola anche nel parlato (italia e paese vogliono invece la lettera minuscola – per rispetto nel confronti del Partito, ça va sans dire).
Circa l’organizzazione: le regole (di qualsiasi “competizione”) erano, sono e saranno sempre giuste e eque. E comunque il punto non è che il regolamento era scorretto, è che i renziani si lamentano puerilmente per la sconfitta dando colpa alle regole. Insomma, è colpa dei renziani che non hanno accettato di perdere con maggiore aplomb. A questa accusa il renziano reagisce con la sua abituale classe e compostezza:
dopodiché si ingegna per ravvisare in tutto ciò lo lo zampino di D’Alema – per forza.
Croce e delizia del militante apparatista è, infine, la certezza di far parte di una crema, di un ristretto circolo di colti illuminati; corollario di ciò è un sottile (?) disprezzo per la democrazia di massa, rea di permettere a tutti (quindi anche a quei pericolosi sovversivi renziani, epigoni del berlusconismo) il diritto al voto per la scelta del segretario.
Si potrebbero scrivere volumi interi sull’apparatista: interessante per esempio la loro apologia della mediocrità, oppure la passione per le Gioiose Macchine da Guerra. Ma non non siamo Veltroni, che dopo aver scoperto le gioie del calamaio ci ha preso gusto e oggi dorme carezzando voluttuosamente una rotativa: non è ancora il momento di darci alla narrativa. Ci sono ancora un sacco di cose da fare: se il risultato sarà buono, magari Uòlter ci scriverà sopra una favola.
Francesco Cottafavi