
Gli studi di pedagogia sono vani, in Calabria. Montessori ha lasciato meno tracce della macarena e l’educazione è rimasta un fatto lineare, basato su cause e conseguenze, azioni e reazioni, precisione e disciplina.
Gli strumenti che coadiuvano tale percorso sono due: la cucchiara e la tappina.
Intendesi per cucchiara il cucchiaio di legno da cucina, di dimensione media e sufficientemente rigida, che spesso ha servito per anni la famiglia in ambito culinario, ma che ora viene sostituito da un cucchiaio più giovane. La funzione educativa consente alla cucchiara di avere una seconda vita di tutto rispetto.
La tappina è invece la ciabatta, o ciambatta che dir si voglia. Il titolo di tappina non può essere attribuito a una moderna Crocs, a una Hawaianas leggera e delicata, a una pantofolina di lana invernale. La tappina è uno zoccolo di legno del peso di 500 g circa, che produce un rumore netto e inquietante quando si cammina, per dimostrare il ruolo e l’importanza di chi la indossa.
Descritti i due strumenti, non è forse di immediata comprensione il loro ruolo pedagogico. Ebbene, essi servono da monito per le giovani leve, molto semplicemente. Te piggh cu a cucchiara, te piggh cu a tappina: ti prendo a cucchiaiate o a ciabattate.
I più adesso grideranno allo scandalo, alla violenza, alla ferocia di un’educazione non fondata sul dialogo e la comprensione, alla brutalità, lo so.
Ma mi sento di dissentire con serenità. I bambini schivano agevolmente le ciabatte in volo diventando ottimi atleti, ad esempio. Oppure rompono i cucchiai di legno con la durezza delle proprie gambe muscolose abituate alla corsa.
In genere, la cucchiara e la tappina soccombono sotto la forza di un bambino calabro indemoniato. Non so se si tratti dei peperoncini, del caldo o dell’ottimo cibo, ma tutti noi pallidi torinesi ammaestrati e timorosi, scesi dal treno o dall’auto, diventavamo piccoli Tarzan e piccole Jane. Incontenibili, inafferrabili e spesso rumorosi come un branco di scimmie urlatrici.
In ogni caso, corre l’obbligo distinguere i due mezzi, che hanno ruoli molto diversi.
La tappina serve per un bambino vivace, ma nella media, redarguibile con un urlo e una minaccia di riferire tutto al papà. Un bambino che può anche essere perso di vista per qualche minuto senza il timore che dia fuoco allo stabilimento balneare.
Il bambino da tappina è scalmanato, ma non si ha la certezza che farà danni.
Per questo fanciullo lo strumento è dunque improvvisato ed è un oggetto che nella quotidianità mantiene la propria originaria funzione. La tappina è dunque ciabatta, giace calzata dal piede della mamma di turno e attende. In caso di pericolo, la mamma minaccia. Solleva il piede in precario equilibrio e ne afferra l’estremità.
Quando compie questo gesto, il piccolo sa che sta esagerando. Se continui così te piggh cu a tappina.La situazione spesso rientra, il bambino finge noncuranza, fischiettando migra verso lidi migliori (continuando a fare gli stessi danni, tra l’altro, ma lontano dallo sguardo materno) e la mamma poggia il piede a terra.
Il figlioletto graziato però è consapevole che il primo gesto è valso da avvertimento e che l’uomo avvisato è mezzo salvato.
Se reitera, il lancio della tappina sarà improvviso e rapidissimo, senza che la mamma proferisca verbo. Da lì nasce la grande abilità nello schivare oggetti volanti.
La cucchiara, invece, è lo strumento educativo del recidivo. I bambini incorreggibili, quelli che danno l’assoluta certezza del danno e della propria pericolosità, obbligano la mamma a tenere la cucchiara in borsa. A volte le nonne ne comprano due o tre da regalare alle figlie divenute da pochi anni madri e considerate di polso troppo debole.
La cucchiara è come una pistola: un’arma. Per quanto sia dormiente e adagiata nella borsa, sempre di arma si tratta. Te piggh cu a cucchiara non ha più il valore di monito, è piuttosto una dichiarazione di intenti. Adesso te le prendi, in sostanza.
La cucchiara, prolungamento del braccio materno, non viene lanciata, viene brandita. Ne consegue che la mamma che le dà con la cucchiara insegue, raggiunge e afferra il bambino, per poi fargli ad uopo il sedere rosso.
Il pargolo è così intimorito dallo strumento che ingaggia con la mamma un gioco a farsi prendere, farcito da coretti di scherno, e poi cerca di vincere la prova di forza: rompere la cucchiara col proprio corpo. Nel caso in cui succeda, la mamma abdica alle proprie funzioni educative e osserva la crescita di questo giovane Lucifero con un misto di ammirazione e terrore.
Uno dei miei cugini era da cucchiara, senza se e senza ma. Viveva con i miei zii sopra la stazione ferroviaria di un piccolo paese, nei tempi in cui le stazioni erano aperte e vive e in cui il capo gestione (com’era mio zio) viveva lì, per svolgere anche delle funzioni di sicurezza.
Il caro cugino, accompagnato dai due fratelli, attraversava i binari nei momenti più impensati, intratteneva conversazioni surreali con i passeggeri in attesa nella sala d’aspetto e si faceva perennemente inseguire: per le scale, in paese, nella stazione.
Un giorno mio zio portò a casa una cassa di arance naturali e la appoggiò nell’ingresso. Mio cugino mi chiamò e di fronte al mio sguardo attonito di mezza calzetta pavida cominciò a giocare al tiro a segno. Con le arance. Sul muro.
Fu uno spettacolo indimenticabile, lo giuro. Kubrick non avrebbe saputo fare meglio. Il muro, completamente devastato, era da ridipingere. Le arance terminate. Mia zia quasi morta di infarto.
Capite che in una situazione così o cucchiara, o muerte.
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QUI LE ALTRE PUNTATE
Cronache Calabre 1 – L’arrivo
Cronache Calabre 2 – I saluti
Cronache Calabre 3 – Il Ferragosto
Cronache Calabre 4 – La Brasilena
Cronache Calabre 5 – La fede e la superstizione
Cronache Calabre 6 – I sistemi educativi