
Il telegiornale italiano tipo (e preciso che, quando dico “tipo”, sto deliberatamente generalizzando, facendo una media approssimativa fra i peggiori notiziari – epigoni senza vergogna della stampa fascista o sovietica – e i migliori, che almeno tentano di avvicinarsi al modello, per quanto imperfetto, di informazione anglosassone) si compone in questi termini:
- dieci minuti riservati alla politica interna (in genere una piatta sequenza di scontate e anonime dichiarazioni dei politici) e all’economia;
- un paio di minuti per gli esteri (l’equivalente di un servizio);
- una parte centrale superiore ai cinque minuti introdotta dalla fatidica frase «Ora passiamo alla cronaca» e per lo più dedicata a fattacci di cronaca nera;
- i minuti restanti destinati al meteo (che faccia caldo o freddo o si stia divinamente, bisogna sempre parlarne), agli spettacoli, alla cronaca rosa, allo sport e a notizie di varia natura (scienza, salute, società, ecc.).
Ora, non ho alcun desiderio di imbarcarmi nella questione spinosa e già molte volte discussa se l’informazione televisiva italiana sia sufficientemente libera, esauriente od obiettiva. Semplicemente nessun organo di informazione, in nessun paese, potrà mai soddisfare appieno tutti questi requisiti, e ciò a causa di una molteplice serie di ragioni, di cui la più banale è che qualsiasi processo di selezione delle notizie, quand’anche fosse affidato a professionisti di comprovata integrità, rimane per forza di cose arbitrario e perciò suscettibile di contestazioni.
Io qui voglio mettere sul banco degli imputati lo spazio – spaventosamente esagerato – che i telegiornali assegnano alla cronaca nera, e non solo lo spazio, ma anche i modi con cui trattano la materia. Accoltellamenti, strangolamenti, sgozzamenti, pistolettate, cadaveri mutilati: tutti i giorni ci viene offerto un disgustoso repertorio del crimine (ancor più stomachevole visti gli orari dei tg, in contemporanea con i pasti), i cui protagonisti sono uomini e donne comuni che, improvvisamente, si tramutano in carnefici.
«Ma lei non aveva notato nulla?», è la solita insulsa domanda rivolta dal giornalista di turno ai vicini di casa, elevati al rango dei più profondi conoscitori dell’animo umano. «No, era una persona normalissima, salutava sempre», rispondono puntualmente questi con sguardo attonito (si sa che i mostri più feroci si nascondono sempre in una mediocre normalità).
Poi comincia la girandola delle ipotesi sul movente e ci costringono ad appassionarci morbosamente alle vite delle vittime e dei loro aguzzini, talvolta trascinandoci per anni all’interno delle loro storie, fra processi, rivelazioni e pentimenti, finché la vicenda di cronaca nera non si trasforma in uno squallido surrogato di un romanzo d’investigazione o di una serie tv, il cui scopo è scoprire l’assassino o le motivazioni che l’hanno spinto a commettere il delitto.
A quel punto, delle vittime non importa più un fico secco a nessuno, sono i colpevoli o presunti tali a essere al centro della scena, e ci costruiscono intorno dibattiti, puntate speciali, trasmissioni ad hoc.
D’altronde, dal punto di vista dei media, tutto questo è perfettamente naturale: perché si dovrebbe parlare delle vittime? È molto più stimolante sondare il lato oscuro di persone ordinarie e provare a identificarsi con queste ultime, che sono vive di fronte ai nostri occhi, piuttosto che con le prime. È triste, ma è così.
La mia idiosincrasia per la cronaca nera non nasce certo da una singolare impressionabilità davanti alla violenza, non fosse altro perché ormai la nostra società è imbevuta di violenza, dal cinema alla letteratura, e anzi in passato lo è stata anche in misura maggiore.
Nasce dalla semplice constatazione che qualsiasi notizia, a prescindere dell’argomento, dovrebbe avere un secondo risvolto, oltre alla cosiddetta “notiziabilità”, termine orrendo con cui i giornalisti indicano la capacità di un fatto di avere un pubblico interessato a esso: dovrebbe cioè comunicarci, anche fra le pieghe degli eventi, un messaggio di pubblica utilità, la possibilità di astrarre dal particolare della notizia una riflessione più generale sulla nostra società.
Alcuni casi di cronaca nera rispondono a questo ideale giornalistico, come quelli sul femminicidio, che ci mostrano lo spaccato di un’Italia ancora molto arretrata culturalmente.
La maggior parte delle notizie della nera, però, sono palesemente un mezzo per soddisfare degli obiettivi di audience: scaviamo nel sordido e nelle tragedie, nuotiamo nel sangue e nelle lacrime, e il pubblico ci seguirà. Fatti privati vengono convertiti in fatti pubblici, nonostante di pubblico non abbiano proprio niente e non riguardino la collettività in alcun modo.
Non voglio nemmeno parlare di “mercificazione del dolore” o di concetti altisonanti affini, perché non è di sicuro da oggi o da ieri che il giornalismo d’accatto ricerca il sensazionalismo o l’emozione facile.
Di “deficit d’informazione” sarebbe invece interessante discutere. Quando nelle redazioni televisive si decide di privilegiare un omicidio in famiglia a una guerra in Africa o a una protesta di piazza in Venezuela o agli effetti delle politiche monetarie espansive negli Stati Uniti e in Giappone, a quale domanda stanno rispondendo i giornalisti presenti alla riunione: «Fa audience?» oppure «Informa?».
Jacopo Di Miceli
@twitTagli