Mai mi era venuta voglia di Cuba, la scopro a 23 anni compiuti da poco. Colpa della radio, che mi sbatte Chan Chan dei Buena Vista Social Club a tradimento, appena terminato di fare benzina. Chan Chan mi accompagna come uno spirito, presente e sfaccettato per tutto il pomeriggio: è malinconica, ma cammina con dignità. Con gli ottoni vecchi, vecchi come i musicisti, negri dai capelli bianchi e la faccia è cuoio.
Se penso a Cuba, che non conosco affatto, penso alla terra. Non alla sabbia, quella è sulle spiagge; non ai campi, quello è il sudore sugli aratri. Ma le strade! Le strade con la terra battuta, e la polvere che si alza al passaggio di auto e di zoccoli, ai piedi di bestie e umani. Strade con poco traffico, terra che uno dovrebbe chiamare polvere ma, senza senso apparente, è più giusto chiamarla così, “terra”.
In quella terra colorata come a Siena, un mondo che cerca di intonarvisi, e se stacca lo fa violentemente e quasi con provocatoria sfacciataggine; in quella terra polverosa, la rivoluzione di un germoglio verdissimo, arrabbiato, appunto sfacciato.
La situazione è questa: c’è terra, c’è un sole cattivo, non c’è acqua. È un atto rivoluzionario, per un germoglio, decidere di vivere! E questo rosso mattone attraversato da piccoli soldatini di linfa muove una tenerezza immensa, e quasi ci si dimentica della desolazione intorno. Non tanto degli umani, ma dell’erba uguale a quest’altra erba: mentre il giovane germoglio nasce in un atto testardo, a fianco le sterpaglie frustate dal vento e dall’arsura sono innanzitutto di un verde molto più cupo, e qualcuna è addirittura rinsecchita; ma poi sono diverse, più vecchie, più lunghe, sembrano le vecchie zie di un cartone animato. In quest’assurdo teatro di erba umanizzata, resta l’accoppiata di verde e color della terra, una sorta di Ying e Yang blasfemo, e latinoamericano.
C’è un sarcasmo profondo nel chiamarla “rivoluzione”. Uno cresce male, con Cuba. È una di quelle cose che ti impone di schierarti, quando non sei abbastanza maturo, o istruito – o uomo – da capire. Personalmente mi son trovato sbattuto addosso Che Guevara per la prima volta a 14 anni. E chi lo portava sulla maglietta era più impegnato a usarlo per far colpo su una compagna di banco piuttosto che a capirlo. Ora, già mi dava fastidio che facesse colpo sulla biondina in questione, figurarsi se lo faceva straparlando. Di un cubano.
Nella preadolescenza uno deve amare Che Guevara, sta scritto. Dove, non si sa, ma sta scritto. Io lo detestavo, e detestavo la necessaria iconografia, e detestavo farmi parlare di rivoluzione da gente che era endemicamente vigliacca. Rivoluzione è una di quelle parole che per utilizzarla bisognerebbe avere un titolo di studio. In certi contesti provoca carisma a buon mercato; in certi altri, morti a caro prezzo. “Le parole sono importanti”, roba da rivoluzionari, non da cretini.
Il Che lo si è sempre salvato, come si è sempre salvata la rivoluzione, con la logica demente dei “compagni che sbagliano”. Ma Cuba è di più, dannatamente di più di una guerriglia e del deragliamento ostinato del socialismo reale. Ti piace la storia? C’è Kennedy e la crisi. Ti piacciono i soldi? Parliamo di embargo. E tutte queste cose le conosci, le incontri da bamboccio, e uno più grande o più sveglio ti punta il dito contro: la ami o la odi? E che ne so.
Ci ho messo un po’ di tempo. Compay Segundo, facciamo due passi? Qui, per la terra tua. Per le case di legno con veranda, i vetri sporchi, i neon rotti da quarant’anni. Lo spirito di Chan Chan non esiste; forse è il tuo, ché sei morto da otto anni e più.
Compay Segundo, facciamo due passi? Mi spieghi perché sei Segundo ma il primo nessuno se lo ricorda? Mi spieghi se eri contento o se Fidel ti rendeva triste?
Ho sempre visto le vostre macchine, nei film. Certo che siete strani: sembrano macchine degli anni ’40, sono bombate, sono tonde, sono simpatiche ma sono fuori, fuori dal tempo. Io di Cuba non conosco ma davvero niente, e però se vi vedo così mi sembrate un posto fuori dal tempo, che poco ha a che fare col mondo.
Le donne: quanta volgarità sulle vostre donne, gli americani non ci sono andati leggeri. Conoscevo una bambina, quando bambino lo ero anch’io, che era stata portata via da Cuba. Era mia compagna delle elementari. Si chiamava Aidil, Lidia scritto al contrario. La prima volta che nevicava, si era messa a piangere di gioia. Chissà dov’è, nemmeno internet mi aiuta.
Compay Segundo, ma le vostre donne? Parlami delle donne giovani, mulatte meravigliose dal corpo splendido; parlami delle donne anziane, ingrassate, che fumano i sigari. Parlami delle vecchie secche che sono avvizzite e delle bambine che scappano.
Compay Segundo, prometto che ascolterò tutto Buena Vista, forse lo comprerò anche originale. Guarderò i film, leggerò, studierò qualcosa di te e di voi. Se andrò a Cuba prenderò un souvenir insolito: non ron, non sigari da batteria, non zucchero.
E non avercela coi luoghi comuni, che cosa vuoi che ne sappia un europeo dei fiori?
Umberto Mangiardi
@UMangiardi