Chi può tradurre Amanda Gorman? Al dibattito, partecipi anche la poesia

Sul tema, le discussioni online sono state, negli ultimi giorni, innumerevoli. La grande assente nella (quasi) totalità di questi dibattiti è stata proprio la poesia, in quella sua peculiare e creativa espressione che è la traduzione di un testo in un’altra lingua. Altre categorie – colore della pelle, genere, oppressione e libertà, diritti e loro negazione – hanno monopolizzato l’arena della discussione.
Ciò non è avvenuto, naturalmente, senza una ragione. In “The hill we climb“, poema della poetessa e attivista protagonista della cerimonia di insediamento del presidente USA Joe Biden, una carica civile quasi profetica e la dimensione della testimonianza sono preminenti, probabilmente fin dalle intenzioni dell’autrice, rispetto alla dimensione letteraria o, per dirla in maniera brutale, rispetto alla qualità poetica, forse non memorabile.

Pur se ridotto a mero strumento, il linguaggio poetico è tuttavia proprio quello scelto da Amanda Gorman per veicolare questa carica e questo valore: non escludere anche questa dimensione dalla discussione è dunque e prima di tutto una questione di rispetto verso l’autrice e verso la sua opera.

Qualche elemento metodologico per provare a farlo in maniera sensata

Alla base di tante e spesso desolanti baruffe online stanno due impliciti interrogativi. Al primo, se l’empatia verso l’autore dell’originale sia condizione necessaria per una buona traduzione, la risposta, da un punto strettamente tecnico, è semplice e univoca: no. La traduzione di un testo poetico, infatti, non è un’operazione etica: è un’operazione letteraria.
Diventa a questo punto superfluo provare a dare una risposa, ancora da un punto di vista dell’arte (techne: perizia, maestria) scrittoria, al secondo e subordinato interrogativo, cioè se la condivisione di un tratto biologico come il colore della pelle garantisca o perlomeno favorisca l’empatia di cui sopra. (Mi si permetta di confessare, incidentalmente, che di fronte a questa seconda domanda le mie sensibili antenne antirazziste si rizzano, insospettite.)
Qualche parola in più su quel categorico “no” di qualche riga fa: empatia, sensibilità e altre facoltà o qualità psicologiche che spesso si credono necessarie all’attività poetica non sono in realtà necessarie da un punto di vista, ancora, strettamente tecnico.
Un terzo e ultimo quesito: la condivisione di un comune sostrato esistenziale tra tradotto e traduttore può conferire un valore aggiunto all’opera di quest’ultimo? Non sarei in grado di provarlo, così come non sarei in grado di provare il contrario; mi sento peraltro di affermare senza soverchio timore di essere smentito che, se lo fa, lo fa in misura piuttosto residuale, quantificabile forse in qualche punto decimale in più o in meno: nulla in sostanza che faccia la differenza, nulla che permetta di dire
Tizi* non può tradurre Cai* perché non ne condivide il colore della pelle.
Andrea Donna

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