Chi ha paura dei rumeni? Fiabe dall’Alta Val di Susa

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C’era una volta un minuscolo regno circondato da alte montagne, che i suoi abitanti amavano contemplare e calpestare in ogni stagione dell’anno. Le montagne lo isolavano dal resto del mondo, ma quando venne costruita una stazione esso si trovò in un battibaleno collegato alla più grande città nelle vicinanze.
Il treno che dopo un’ora e mezzo di viaggio conduceva dalla città al regno montagnoso cominciò ad ospitare sempre più turisti curiosi. Per loro improvvisamente si costruirono alberghi, case, ristoranti e qualunque tipo di comfort che consolidasse il rapporto con gli autoctoni e garantisse loro un cospicuo guadagno.

Passarono gli anni e gli uomini di alcune parti del mondo dovettero di nuovo imparare il faticoso esercizio della migrazione; faticoso sì, ma il più delle volte necessario a condurli lontano dai Paesi natii, teatri di guerre e povertà.
Poco alla volta i fenomeni migratori divennero una realtà di milioni di persone e anche il minuscolo regno montagnoso ne fu coinvolto. Quando i primi immigrati raggiunsero le montagne, l’accoglienza che ottennero non fu delle migliori.
Li si guardava con sospetto convinti che le dicerie sul loro conto fossero vere : che portassero malattie, criminalità e sporcizia. Li si vedeva con le mani in mano attorno alla stazione un tempo tanto osannata, e ci si chiedeva che lingua parlassero. Soprattutto, perché non potessero parlare quella del luogo. Li si disprezzava.

Ci furono dei furti di una certa portata in molte cascine, e dato che prima del loro arrivo nessuno era mai stato derubato la colpa venne logicamente attribuita ai nuovi arrivati. Da quel momento non li si guardò solo con diffidenza e punte di disprezzo: li si guardò con paura.

Quando alcuni di loro offrirono la propria manodopera a costi dimezzati rispetto alla norma e trovarono lavoro, li si accusò di rubare l’impiego agli autoctoni e di aver portato la disoccupazione e il calo del turismo nel regno.
Nessuno riuscì ad attribuire questi due problemi alla crisi economica che dilagava dal 2008, tanto meno alla mancanza di fondi investiti nel terziario da parte dell’amministrazione del regno; nessuno si rendeva conto che il regno aveva costi immobiliari e legati al turismo troppo alti rispetto a quello che era in grado di offrire, e che se alcuni regni limitrofi erano molto più appetibili la colpa era di chi aveva scelto di rendere quel posto un luogo desolato e dal profumo svanito.
Le domande da porsi si ridussero drasticamente, perché a tutte si aveva già una risposta : “Sono stati loro, gli immigrati”.

Vorrei poter trovare un colpo di scena degno dei fratelli Grimm e concludere con un “E vissero per sempre felici e contenti”, ma purtroppo ad oggi mi risulta difficile.
Difficile è anche sentir parlare di immigrati durante tutte e 48 le ore trascorse in quel regno, vedendo il terrore nelle parole delle donne e la rabbia pronta a tutto in quelle degli uomini.

Per quanto politicamente scorretto, è inevitabile che chi è disoccupato e vede il proprio lavoro fatto da stranieri provi risentimento nei loro confronti. Mi sono sentita dire da un imbianchino che i rumeni gli hanno rubato il suo lavoro solo  “per farlo meno bene e in modo più approssimativo”, rendendo inutili gli anni di formazione che lui, nuovo disoccupato italiano, ha dovuto sudare per raggiungere certi risultati di qualità. “E ora arrivano questi con le vernici dell’Ikea che chiaramente costano meno, si fanno pagare la metà del sottoscritto, fanno un lavoro penoso ma è ovvio che tutti li vogliano, costano meno.

Difficile è pensare a quali saranno le conseguenze di questi sentimenti in futuro. La paura dell’altro è legittima solo quando non lo si conosce, così come la diffidenza lo è solo se questo “altro” è responsabile di alcune azioni ingiuste.
La paura e la diffidenza sono difficili da eliminare negli adulti di oggi, italiani o no, che si sono trovati dalla sera alla mattina a convivere con persone diverse cercando di farlo nel rispetto comune.
Ma diventa in seguito fondamentale porsi una domanda: è giusto trasmettere questi sentimenti anche alle generazioni future verso i figli dei nuovi arrivati? È giusto non dare nemmeno una possibilità ai futuri giovani di cui con patetico paternalismo spesso si dice che siano “il futuro del mondo”? C’è una via per non condannare a priori i giovani stranieri che hanno ancora una vita intera per diventare italiani a tutti gli effetti: far crescere i piccoli Dimitri assieme a chi fa Pautasso di cognome.

Elle Ti
@twitTagli

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