Forse la più celebre definizione dell’opera di Marc Chagall spetta a Julia Roberts, in “Notting Hill”:
“La felicità non è felicità senza una capra che suona il violino“.
I lavori di Chagall ovviamente comunicano molto altro e non sono riducibili a un’insieme di animali magici e di oggetti simbolici, anche se questi elementi sono una costante nella sua produzione.
A ricordarcelo arriva a Milano la più grande retrospettiva mai allestita in Italia sull’opera del pittore russo, con 220 opere esposte, che coprono tutti i periodi della sua vasta produzione, dal primo lavoro del 1908 fino alle gigantesche tele degli anni ’80.
Marc Chagall è innanzitutto il pittore della leggerezza dell’innamoramento, come si può avvertire già osservando la locandina della mostra, in cui è riprodotta la celebre “Passeggiata”: il pittore, sorridente, guarda lo spettatore e tiene Bella per una mano, quasi come un aquilone.
Lei, timida e leggera, si libera in cielo nella sua bellezza.
Gli innamorati ritratti nelle tele di Chagall perdono consistenza e peso per fluttuare, completamente ignari della gravità, uniti e quasi fusi in abbracci senza tempo.
L’amore in Chagall è una forza vitale, spesso sensuale, e la voglia di toccare le labbra dell’amata può portare alla perdita di forma del corpo dell’innamorato, contro ogni legge della fisica, com’è proprio di una visione dello spazio e del tempo cubista a cui Chagall spesso si accosta.
Ebreo e russo, Marc Chagall lascia nelle sue tele anche una viva testimonianza delle due tragedie belliche dell’Europa nel Novecento.
Entrambi i conflitti cambiano il corso della sua vita: allo scoppio della prima guerra mondiale il pittore viveva da anni a Parigi, ma si trovava in Russia per celebrare il suo matrimonio con Bella, e per anni non riuscì a rientrare in Francia, dove aveva stretto rapporti con le avanguardie e dove anelare tornare a vivere.
Quando la tragedia dell’oppressione nazista si abbatte sull’Europa è costretto ancora una volta a lasciare l’amata Francia (cede solo nel 1941, per l’insistenza delle richieste della figlia e degli amici) e sceglie di emigrare negli Stati Uniti, dove lo colpirà l’inaspettata disgrazia della morte della moglie.
Le sue tele sono intrise di una profonda spiritualità: la radice ebraica è sempre viva, attraverso la presenza degli immancabili animali sacri (la capra, la mucca, il gallo), di oggetti emblematici come il candelabro, il violino o i rotoli della Torah, della figura del rabbino o dell’ebreo errante, quando non di tutti questi elementi riuniti assieme.
A partire dalla fine degli anni ‘30 anche la figura del Cristo si affaccia frequentemente nei suoi lavori. Gesù in croce nelle opere di Chagall perde ogni valore specificamente legato alla religione cristiana per diventare simbolo universale della sofferenza umana e unico barlume di speranza in una salvezza nonostante le sciagure della guerra.
Questo valore di Cristo come figura in grado di accostare le diverse religioni, vittima innocente quanto gli ebrei perseguitati, è stato apprezzato dallo stesso Papa Francesco, che ha dichiarato che il suo quadro preferito è “La crocifissione bianca” di Chagall, in cui un Cristo vergognoso più che sofferente è raffigurato ricoperto con il tallit, lo scialle da preghiera ebraico, e campeggia solo al centro della tela, circondato da un quadro di violenza e devastazione dove tutti i personaggi umani sembrano troppo occupati a fuggire per occuparsi di lui.
Nonostante le apparenze, Marc Chagall non è un pittore facile, e se il suo sguardo resta sempre fanciullesco non esita a posarsi sui più scottanti temi della storia novecentesca.
La poesia e l’incanto delle sue opera sta nella capacità di mantenere sempre viva la meraviglia, la visione onirica, il fascino per la vita, anche in mezzo all’orrore della storia.
Marc Chagall (1887-1985) era un uomo a tratti insicuro, un ragazzo balbuziente come lui stesso si definisce, eppure fiero e consapevole del proprio valore come pittore, al punto da scrivere la propria autobiografia all’età di trent’anni.
Fino al 1 febbraio la mostra a Palazzo Reale a Milano resta un’occasione unica in Italia per accostarsi alla sua opera.
Serena Avezza
@twitTagli