Che succede a Serena Williams?

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11 settembre 2015, 31 gennaio 2016 e poi ancora 4 giugno 2016. Se tre indizi fanno una prova è il caso di dirlo: Serena Williams, abbiamo un problema. Le tre date corrispondono alle ultime tre sconfitte Slam della minore delle sorelle Williams: nella semifinale degli U.S. Open contro Roberta Vinci e nelle finali degli Open d’Australia contro la Kerber e del Roland Garros contro l’astronascentedel tennis spagnolo,Muguruza.
Si tratta, indubbiamente, di partite tra loro molto diverse. La più dolorosa è quella dello scorso settembre. La Vinci nega la gioia del Grande Slam alla Williams, a due passi dal mito. Per una come Serena è un colpo durissimo da digerire.
Ma tra la stanchezza per una stagione già molto lunga e dispendiosa, il peso psicologico di un quanto mai concreto Grande Slam e la complessità di una giocatrice, per quanto più debole, come la Vinci possono essere una valida spiegazione di quanto avvenuto nella semifinale newyorkese.

Serena, comunque, assorbe maluccio il colpo. Non disputa nessun torneo fino al nuovo anno.
Si ripresenta all’Australian Open 2016 e la sua condizione psico-fisica è una delle incognite del torneo. La Williams fuga ogni dubbio tritando chiunque al di là della rete fino alla finale. Eccezion fatta per il match d’apertura contro la Giorgi, non concede più di 5 game a nessuna giocatrice – nemmeno alla Sharapova e alla Radwanska.
In finale trova la Kerber, già top ten, alla prima finale Slam della sua carriera. La tedesca è una giocatrice mancina e molto intelligente. Non è dotata di un grande servizio né di colpi molto efficaci in fase di sfondamento, ma è dotata di grande difesa e riesce a giocare sempre con buona profondità e lift.
Nel primo set mostra la consueta tenacia strappando il servizio a Serena per ben due volte e porta a casa la partita per 6-4.

Gli schemi incrociati della mancina mettono in difficoltà l’americana e la costringono a scambiare più volte di quanto normalmente sarebbe necessario. È la forza di chi nel tennis sa difendersi bene: far giocare all’avversario sempre una palla in più. La Kerber mostra non solo un’ottima resistenza al palleggio da fondo della Williams, ma, cosa altrettanto fondamentale a questi livelli, ottime capacità di ribaltamento del gioco.
Tra profondissimi lungolinea e strettissimi incrociati riesce a mettere alle corde la Williams, che difatti capisce la delicatezza del momento e fa sentire la propria presenza in campo a forza di C’mon strepitati a più riprese in occasioni di alcuni colpi vincenti.
Nel secondo set Serena innalza, se possibile, il livello di aggressività dei propri colpi sciorinando un’insospettata capacità di mobilità – non il piatto forte della Williams, diciamolo pure.
La volontà di offendere è palese a ogni colpo.
Aumentano i lungolinea vincenti, il vero colpo che fa la differenza nel tennis moderno, soprattutto quello femminile. La Kerber, pur rischiando un secondo break, non cede di schianto, ma la furia della Williams è semplicemente incontenibile.
Si va al terzo set con un 6-3 per l’americana. 

Ora tutti si aspettano un parziale Williams non contestato, un classico quando si affrontano l’americana e una qualsiasi giocatrice che si azzarda a tenerle testa per un set. E invece, con uno splendido game di risposta, la Kerber strappa il servizio e si porta sul 2-0.
La Williams torna immediatamente in partita: due pari.
Il sesto gioco è bellissimo. La Kerber si guadagna tre palle break non consecutive, e la Williams le annulla da campionessa. Serena ha la palla per portare a casa il game, ma tra recuperi, lungolinea di sfondamento e dropshot – la palla corta – la Kerber strappa ancora una volta il servizio all’americana.
Per la prima volta tutti capiamo che sì, la tedesca ce la può fare. Quando la Williams sparacchia un dritto incrociato fuori di un metro e consegna il 5-2 alla Kerber, il più sembra fatto. E invece la Williams strapperà un’altra volta la battuta alla Kerber, prima di cedere nuovamente il servizio per il 6-4 che consegna il titolo all’avversaria.

Rispetto al k.o. contro la Vinci, questa sconfitta ha ragioni diverse. A inizio stagione non ci sono argomentazioni che riguardino la prontezza fisica dell’americana, e d’altronde il modo in cui ha disintegrato le avversarie nel corso del torneo lo ha dimostrato.
Rimane però il fatto che la Kerber, per la tipologia di gioco che propone, rappresenta la tennista più adatta a mettere in difficolta Serena. Grande difesa e buona lettura del gioco sono doti che la Williams mal digerisce perché la costringono a giocare sempre un colpo in più.
Il mancinismo della tedesca, un po’ come accadeva a Federer contro Nadal, non consente alla ventuno volte campionessa Slam di eseguire i soliti schemi con rapidità.
La Kerber, quel sabato di gennaio, gioca come mai nella vita e soprattutto mette in pratica un gioco che sembra fatto su misura per incasinare la Williams.
Per quanto unpredictable, la sua vittoria è quanto mai meritata e comprensibile.

Veniamo ora alla finale di Parigi di questo week end. Serena Williams vs. Garbine Muguruza, classe ’93 spagnola, alla seconda finale Slam dopo quella dello scorso anno a Wimbledon – persa proprio contro Serena.
La Muguruza è una giocatrice profondamente diversa rispetto alla Kerber. È meno mobile, ma più potente nei colpi da fondo. Possiede un gioco più aggressivo e penetrante e da questo punto di vista propone problematiche diverse alla Williams.
In Australia, indipendentemente dal risultato, si sapeva che la Williams avrebbe condotto il gioco. Sarebbe toccato alla Kerber resistere e, se possibile, replicare.
La finale parigina propone una vicenda molto simile a uno scontro tra titani, tra giocatrici che possiedono strategie simili. In termini assoluti, una garanzia in più che a prevalere sarà la migliore. Se le armi sono le stesse, la lotta è davvero paritetica.

Comparando le statistiche tra la finale di Parigi e quella di Londra dello scorso anno si nota che la Muguruza è migliorata leggermente in risposta e molto con il rendimento della seconda di servizio. Può non stupire il primo dato perché il servizio sulla terra è rallentato e rimbalza più alto favorendo quindi chi riceve rispetto al tennis su erba, ma a maggior ragione deve sorprendere il secondo, sulla seconda di servizio.
Se consideriamo soltanto la finale di sabato, Garbine ottiene più punti sia al servizio che in risposta rispetto all’avversaria e curiosamente percorre una distanza leggermente inferiore (1097.2 vs 1161.2 m), segno che attraverso i suoi colpi riesce a muovere la Williams almeno quanto l’americana fa con lei – e se consideriamo quanto la Williams, tirando molto più forte della media delle sue colleghe, domini il gioco attraverso questa strategia, intravediamo le ragioni di una vittoria che fino a qualche giorno fa poteva sembrare impensabile.
La partita scorre su un filo molto sottile e la Williams potrebbe anche impossessarsene, ma non vi riesce. E il punto, se mi si consente, è proprio qui.

Non è il primo match che la Williams perde a certi livelli. Ho iniziato parlando della semifinale agli U.S. Open 2015 e della finale di Melbourne di qualche mese fa, ma potremmo tornare indietro alla finale di New York 2011, quando l’allora numero 28 del torneo perse in poco di più di un’ora da Sam Stosur e fino agli unici due match persi contro la Sharapova nel lontano 2004: la carriera di Serena, per quanto fantastica, è costellata di momenti bui e di sconfitte che all’epoca valevano come profonde coltellate.
Ma le giocatrici da cui perdeva e le situazioni da cui queste sconfitte si originavano erano profondamente diverse rispetto a quelle in cui è maturato l’insuccesso parigino.

Per la prima volta da moltissimi anni Serena Williams perde un match importante da una giocatrice che le assomiglia. E lo fa pur supportata da una buona condizione fisica e senza avere sovraccarichi psicologici. Senza crisi isteriche causate da decisioni arbitrali legittime e coraggiose – se non sapete a cosa ci riferiamo, guardate qui.
Perde perché l’altra, banalmente, le sta sopra. Con i colpi da fondo e con la mobilità, principalmente; da qui discendono tutti i guai (per Serena).
Serena risente improvvisamente dell’età, del logorio di una carriera dispendiosa.
Non è stata sempre concentrata sul tennis, ma quando l’ha fatto Serena si è prosciugata di ogni energia mentale prima ancora che fisica per ottenere tutto quello che ha ottenuto. Potreste pensare che non c’è notizia in tutto ciò, che una trentacinquenne, sulle cui spalle gravano una novantina di finali e quasi novecento partite, viva il suo declino sportivo sia tutto sommato normale.
Che lo sia non ci sono dubbi; ma, abituati a considerare Serena, se in giornata, la più forte, è la prima volta che ci succede con la Williams.

Sulla Muguruza c’è è soprattutto ci sarà molto, moltissimo da dire. Tra tre settimane, a Wimbledon, difende la finale dello scorso anno. Pensare che a 23 anni possa ripetere il successo parigino tra un mese sembra un azzardo superiore al talento di cui, indubbiamente, la ragazza dispone.
Più facile aspettare il colpo di coda della numero uno del mondo.
Ma se la spagnola conserverà la capacità di vivere il tennis con il fuoco che l’ha animata in queste finale parigina, il tennis femminile potrebbe avere incoronato una delle prossime dominatrici di questo sport.

Maurizio Riguzzi

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