Sarà un caso, che i quattro Casamonica siano stati arrestati a nemmeno 24 ore dalla diffusione del video dell’aggressione e del bellissimo servizio di Repubblica?
Sarà un caso che la legge arrivi subito dopo le telecamere?
Solo oggi la procura di Roma ha esaurito le pratiche? Solo adesso si può procedere contro gli aggressori Antonio Casamonica (26 anni), Alfredo Di Silvio (22 anni), Vincenzo Di Silvio (26 anni) e contro il patriarca Enrico Di Silvio (71 anni), autore dell’intimidazione successiva?
La Procura sbrodola: “In un mese abbiamo raccolto le denunce, fatto le indagini, scritto la richiesta di custodia cautelare e eseguito i provvedimenti, e oggi la DDA può contestare i reati“.
Ci si può credere?
Dunque è un caso che il colpo giornalistico di Repubblica e delle bravissime, presentissime Federica Angeli e Floriana Bulfon arrivi giusto 24 ore prima del blitz della Squadra Mobile di Roma.
Tutti sanno, ma per cinque settimane nulla si è mosso. Del resto tutti vedono le recinzioni delle ville che esondano sui marciapiedi, i picciotti che chiedono il pedaggio ai passanti, le fermate del bus spostate. E poi, tutto il clima di intimidazione, violenza, minaccia e omertà che la stessa Procura constata.
Senza scordarsi il funerale grottesco del 2015, la prima volta che il nome “Casamonica” giunse sulle pagine nazionali dei quotidiani.
Tutti sanno, ma la procura ci ha messo cinque settimane. E per puro caso, Repubblica il giorno prima ci ha fatto un articolo con tanto di video.
Prese in giro: tutti sanno, Procura inclusa, ma è servito il clamore mediatico per intervenire, perché lo Stato si curasse di quel fazzoletto di terra della sua capitale. Non ci si crede, a un intervento tempestivo a tutela di un povero cristo rumeno, che tira a campare in un baretto di periferia, a cui hanno sfasciato la testa e il locale. E quella coraggiosissima donna, per giunta disabile: presa a calci, strangolata, presa a cinghiate. A cinghiate. Come le bestie.
Davvero la Procura di Roma sarebbe intervenuta oggi, senza quei video?
E allora perché non è intervenuta contro gli abusi edilizi, contro i taglieggiatori, contro tutti i comportamenti che han fatto diventare concepibile, normale, una rappresaglia in pieno giorno in un quartiere che in teoria conta un commissariato della Polizia di Stato?
Semplice, perché non ne ha la forza. Questo provvedimento è il figlio dell’esigenza di ripulirsi la faccia di fronte all’opinione pubblica, giustamente travolta dall’orrore di quella violenza, di quella prepotenza gratuita, futile, miserabile. In due contro una donna. Una donna in difficoltà: cani!
Nemmeno di fronte alla buffonata del funerale con le musiche de “Il Padrino” si è mosso un sopracciglio. Tranquilli, va tutto bene, mica è successo nulla di grave.

“Arrestati”, recitano finalmente le pagine dei quotidiani: sembra l’epilogo di una escalation criminale nello spartito di una conclamata impunità. Sembra un riscatto dell’ordine nella periferia disastrata di una città (Roma) forse ancora più disastrata. Socialmente, culturalmente, antropologicamente.
È invece fumo negli occhi, una abdicazione della giustizia all’inchiesta. Uno sberleffo, una dichiarazione di resa: senza le telecamere, le ville continuano a crescere, i baristi rumeni a dover servire prima i boss, le donne a essere picchiate, e chissà che altro non sappiamo. Negozi costretti a chiudere, uomini istruiti con le botte a tacere, voltarsi dall’altra parte, non rompere i coglioni di fronte a un pestaggio contro un debole. E tutto questo è consentito.
Questo ha ammesso, con il suo tempismo, la Procura. I Casamonica comandano davvero, e Roma tace, acconsente. Interviene solo quando lo smacco sarebbe troppo grosso. Gli articoli della Angeli, le denunce, i comitati di quartiere sono noccioline: biglie inutili a roteare su una pista di cui nessuno si cura. Solo quando si esce dalla normalità criminale, quando la tracotanza si spinge troppo più in là, si interviene perché non si può (più) far finta di niente.
E all’orrore si aggiunge orrore, nella certezza che Roma (e, potenzialmente, ogni nostra città) non è controllabile.
Siamo nella sicurezza di non essere sicuri.
Umberto Mangiardi