Carlo Tavecchio: un altro che “Non è razzista, ma…”

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Siamo bacchettoni, perbenisti, farisei, ipocriti: va bene. Guardiamo la forma e non la sostanza: ok. Siamo superficiali: tutto vero.
Ma tu, Carlo Tavecchio, sei razzista.
O per lo meno, non hai capito come si è rimodellato nel corso dei decenni il concetto di decenza, di oratoria, di spendibilità in pubblico. Quindi, sei inadeguato.

Non è colpa tua: sei nato nel luglio del ’43, dodici giorni prima che il Gran Consiglio del Fascismo defenestrassse Mussolini. Essere coevo del Duce non è una colpa in sé: ma basta a qualificarti come figlio di una era geologica diversa.
Per il 2014, il miglior politico degli anni ’80 (e tu, comunque, non lo sei) equivale al miglior politico del Regno del Basso Egitto: quello con la corona bianca a forma di pera, roba del 3.000 avanti Cristo. Non è più quel mondo, non è più il tuo mondo.

Difatti, nel tuo mondo – correva l’anno 1970 – era perfettamente normale che in radio si bersagliasse un guardalinee etiope reo di aver sbandierato malamente durante Italia-Israele (la mitologia dell’episodio crocifisse ingiustamente Nicolò Carosio, ma questa è un’altra storia: leggetela qui).
Quel che importa oggi è capire cos’era l’Italia di allora: una società ingenua, bonariamente ottusa, chiusa e poco istruita, che si poteva anche concedere di essere ignorante. Oddio, poteva concederselo fino a un certo punto: difatti quel “Ma cosa vuole quel negraccio?“, peraltro mai pronunciato, passò in qualche maniera nell’immaginario collettivo.

Hai un bel da dire alle curve, quando per il tuo futuro presidente “viene a giocare in Italia gente che fino a ieri mangiava banane“.
Hai un bel da condannare il curvaiolo becero, quando un dirigente incravattato dimostra i medesimi schemi di ragionamento.
E sarebbe ora che la piantassimo di lasciare a PD e Sel la parte di “coscienza collettiva della società civile”: non è il loro ruolo.
Dobbiamo pretendere che una persona con quella forma mentis (o comunque incapace di discernere cosa si può dire in una conferenza pubblica e cosa no) non corra per nessun posto dirigenziale, e lo dobbiamo pretendere trasversalmente.

Dobbiamo poi reagire male, malissimo contro i tentativi di diminutio: “scherzavo, non volevo dire, non intendevo, era un momento di leggerezza, ho chiesto scusa”. Da quando in virtù di una buona battuta si può lasciar passare qualunque fesseria? Da quando le scuse sono la panacea di tutto? E soprattutto: perché?
Dobbiamo ridicolizzare i “non sono razzista, ma“: i peggiori discorsi razzisti che si sentono in ogni contesto pubblico partono da un “non sono razzista, ma“, e dare del “mangiabanane” è razzista. Equivale ad assimilare un uomo a una scimmia: ogni tanto è il caso di specificarlo, qualora qualcuno facesse il finto tonto.
Dobbiamo iniziare a pretendere serietà. La gente che scherza può riciclarsi allo Zelig di Milano. Si aprono dei carrieroni in certi casi, credetemi.

Carlo Tavecchio era già inadeguato prima: non solo per motivi anagrafici. Certo, sarebbe bello capire perché l’occupazione militaresca di tutte le poltrone pubbliche e non solo sia insensibile a qualunque tentativo di rimpiazzo da parte di qualunque ricambio politico (Renzi, anche tu stai fallendo!). Ma non è solo questo.
La Lega Nazionale Dilettanti fa acqua da anni e da più parti: le società dilettantistiche fallite si contano a grappoli; i campionati dilettanteschi sono spesso falsati (o in maniera per così dire “canonica” o da società che, pur di non “salire” e diventare semiprofessionistiche, perdono apposta le ultime partite di campionato); lo stesso concetto di “dilettantismo” non esiste, visto che dietro il nome di “rimborsi spese” vengono erogati dei sostanziali secondi stipendi a ragazzi e giovani uomini che arrotondano in questo modo – il tutto ovviamente esentasse.
Per non parlare della indecorosa pratica del vincolo sportivo, uno dei bubboni del nostro sistema di organizzazione del calcio che è tanto notevole da meritarsi questa ottima eppure incompleta inchiesta di La Repubblica.

Questo è lo status dell’ente diretto finora da Tavecchio. Nonostante questo, la politica federale ha subito pensato a lui per gestire il dopo-Abete: dalla padella alla brace.
Visto che il decoro di riconoscere i propri fallimenti, o anche solo la propria inadeguatezza e arretratezza, è merce rara, a questo punto ben venga la frase sulle banane.
Oltre a essere un pessimo manager, oltre a essere in piena età pensionabile, oltre a essersi fatto sfuggire un caso planetario come quello di Dani Alves e appunto le sue banane, Carlo Tavecchio non è capace di presentarsi come personaggio pubblico e/o ha una mentalità di stampo razzista.
Il calcio non è certo il settore più importante per cui indignarci. Ci sono ben altri problemi eccetera. Ma l’abbiamo detto all’inizio, siamo ipocriti e superficiali: per quel che ci riguarda, noi iniziamo da qui.

Umberto Mangiardi
@twitTagli 

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