La bacchettata sulle mani questa volta è di quelle che lasciano il segno. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha strigliato l’Italia per l’aberrante situazione delle nostre carceri, così sovraffollate che spesso i detenuti si ritrovano a dover vivere in meno di tre metri quadrati. Un trattamento che non meritano nemmeno gli animali.
Le patrie galere somigliano un po’ troppo a quelle di Bogotà, di Ankara o di Teheran e per un paese democratico e impregnato di valori cristiani questa è un’onta cui porre rimedio il prima possibile.
Quella del sovraffollamento delle nostre prigioni è questione non certo nuova, solo abbiamo fatto in modo di non accorgercene per troppo tempo fino a che il tappo è saltato da solo. Il discorso impone una riflessione ad ampio raggio che chiama in causa argomenti diversi.
Le carceri italiane scoppiano (a fronte di 44.576 unità i detenuti sono 68.121 secondo dati aggiornati al 2010) e il primo passo da fare è chiedersi perché. La risposta è piuttosto semplice, le porte del carcere si aprono troppo facilmente. Sbaglia chi crede che nelle celle siano chiusi soltanto pericolosi assassini, serial killer, mafiosi e pedofili. Basta guardare alle statistiche per rendersi conto che i nostri istituti di pena sono pieni di persone macchiatesi di reati come furto, possesso di stupefacenti, spaccio e reati contro il patrimonio, certamente meno gravi rispetto all’omicidio, alla violenza sessuale e all’associazione mafiosa.
E i motivi possono essere sostanzialmente due. Il nostro codice penale, redatto nel Ventennio fascista, per certi versi ancora molto attuale ma in alcune parti ormai obsoleto e superato anche dalla riforma del codice di procedura penale (i due codici andrebbero di solito riformati insieme) e l’assenza di forme strutturate di risocializzazione e reinserimento.
Reprimete il furore giacobino che magari può animarvi perché limitarsi a dire che chi ha sbagliato deve andare in carcere è soluzione troppo semplicistica. Le porte del carcere dovrebbero aprirsi soltanto per chi ha commesso reati gravi: omicidio, violenza sessuale, lesioni gravi, rapina a mano armata, associazione di stampo mafioso, pedofilia e terrorismo. Che fare degli altri? Semplice, prevedere forme di rieducazione o detenzioni soft. Questo perché è giusto pesare diversamente i reati diversi ed anche perché il carcere può essere uno shock difficilmente sanabile, soprattutto per chi vi entra la prima volta.
Un altro passo potrebbe essere quello di derubricare i così detti reati “bagatellari”, la cui carica lesiva è così ridotta da non giustificare l’arresto e la detenzione.
Non dimentichiamo che l’articolo 27 della nostra illuminata Costituzione vieta i trattamenti contrari al senso di umanità (e sfido chiunque a dire che sia umano costringere una persona, per quanto abietta, a stare in tre metri quadrati) e prescrive la funzione rieducativa della pena. Questo vuol dire che il carcere non deve, o meglio, non dovrebbe essere una punizione ma un’occasione offerta al detenuto per capire l’errore e porvi rimedio così da poter iniziare una vita diversa una volta scontata la pena.
Discorso a parte merita la durata delle pene. È argomento discusso tra i penalisti se il cosiddetto carcere a vita debba ancora avere senso. Chi commette un reato a 20 anni e viene condannato a trent’anni di carcere (l’ergastolo in Italia non può più essere considerato come carcere a vita perché la perpetuità della pena contrasta con il principio rieducativo della pena) dopo un certo numero di anni potrebbe dimostrarsi ravveduto e addirittura la sua personalità potrebbe mutare radicalmente rispetto al tempo del commesso reato. Ecco perché già oggi viene consentito a chi ha scontato 26 anni di carcere di essere ammesso alla libertà condizionale.
Ora, dopo l’ennesima tirata d’orecchi, (la prima è del 2009), dopo una sequela di suicidi in cella che finiscono puntualmente nelle brevi dei quotidiani e dopo l’ennesimo sciopero della fame di Marco Pannella – anche questo piuttosto snobbato dai media – è stato tutto un cospargersi il capo di cenere, dal ministro Severino al presidente Napolitano.
Se guardiamo l’approccio al problema, di cui l’ultimo decreto svuota carceri ne è ulteriore riprova, ci rendiamo conto che si persevera nello sbaglio. La migliore risposta al problema del sovraffollamento delle carceri non può certo essere l’ampliamento delle stesse o la costruzione di nuove. Un paese che ha bisogno di aumentare il numero di celle ha già perso la sua sfida in partenza.
Servono oggi strumenti nuovi o mutuati anche da altri paesi. In un simile contesto uno strumento come il braccialetto elettronico che fa gridare di orrore molti sarebbe certamente più dignitoso che essere costretti a vivere in una cella fredda, malsana e condivisa con altri detenuti.
Servirebbe poi un piano ragionato per il futuro, non incentrato sul singolo criminale e sulla sua detenzione ma sulla deterrenza e sulla prevenzione del crimine. Come diceva Victor Hugo, forse peccando un po’ di utopia,
Alessandro Porro