L’Italia si trova nuovamente in questi giorni in una delicata fase politica. Due giorni fa Mario Monti ha rassegnato le sue dimissioni dalla carica di presidente del Consiglio ponendo così fine al governo dei tecnici e aprendo altresì la cosiddetta crisi di governo.
Che cos’è una crisi di governo? È quello che ci proponiamo di spiegare nelle poche righe che seguono.
La nostra Costituzione, all’art. 94 prevede che il Governo debba avere la fiducia delle due camere. Questo significa che una delle due camere potrebbe presentare una mozione di sfiducia (con il voto favorevole di almeno un decimo dei componenti della camera in questione). L’eventuale voto contrario di una o di entrambe le camere ad una semplice proposta del Governo non comporta invece un obbligo di dimissioni (art. 94 comma 4 Cost.), anche se il lavoro dell’esecutivo potrebbe non aver più molto senso in assenza di una maggioranza parlamentare pronta a sostenerlo.
L’istituto delle dimissioni non è espressamente previsto nel testo costituzionale ma questo non può costringere un Governo a restare in carica anche quando sia ormai evidente che il programma è inattuabile. Secondo la prassi di corretta informazione delle Camere, il Presidente del Consiglio dimissionario dovrebbe presentarsi alle Camere per riferire sulla sua decisione (passo che Mario Monti non ha fatto e del quale molti gruppi parlamentari si sono lamentati).
E veniamo proprio alle dimissioni in sé e alle conseguenze che producono. Il presidente del Consiglio sale al Quirinale e, come suol dirsi, “rimette nelle mani del presidente della Repubblica” il mandato parlamentare. Nel caso in cui il presidente della Repubblica accetti le dimissioni darà subito corso alle consultazioni.
É questa una fase in cui il presidente acquisisce le opinioni dei presidenti dei gruppi parlamentari, dei segretari di partito e dei presidenti di Camera e Senato. Le consultazioni servono al presidente della Repubblica per orientarsi e capire se esista una maggioranza parlamentare in grado di sostenere un nuovo esecutivo senza andare a elezioni; in tal caso individua una persona cui conferire l’incarico di formare il governo (è quello che successe un anno fa, quando Napolitano nominò proprio Monti, incaricandolo di formare il governo tecnico).
Va da sé che a pochi mesi dalla scadenza naturale delle Camere ben poco senso avrebbe costituire un nuovo governo. Ecco che il presidente della Repubblica, sentiti i presidenti di Camera e Senato – il cui parere non è vincolante, ma coadiuva il presidente della Repubblica nella sua scelta – scioglie le camere in vista di nuove elezioni. Tra lo scioglimento anticipato e le nuove elezioni non devono trascorrere più di settanta giorni.
Il vecchio governo non c’è più e quello nuovo deve ancora essere nominato, così come il nuovo Parlamento deve essere composto sulla base delle elezioni. Uno stato democratico però è come una nave, non può restare senza timoniere, spesso per diversi mesi. Caduto il Governo, i due rami del Parlamento restano in carica in regime di “prorogatio”, ovvero vedono prorogati alcuni poteri. Unico limite espressamente previsto dalla Costituzione all’art. 85 è il divieto di procedere all’elezione del presidente della Repubblica a partire dai tre mesi che precedono lo scioglimento. Per quanto attiene ai potere in regime di prorogatio essi non possono andare oltre l’ordinaria amministrazione, anche se risulta difficile identificare quali siano le materie intese come “di ordinaria amministrazione”.
La fine della legislatura comporta però la decadenza di tutti i disegni di legge all’esame del Parlamento, anche se già approvati da una delle due camere. I disegni di legge potranno essere nuovamente ripresentati entro sei mesi dall’inizio della nuova legislatura.
Alessandro Porro