Il 7 aprile 1915, esattamente un secolo fa, veniva alla luce Billie Holiday, al secolo Eleanora Fagan. La nostra piccola nasce in quella marginalità dell’America nera in cui sarebbe rimasta invischiata per praticamente tutta la sua vita e il suo “romanzo di formazione” – che è tutto meno che un romanzo – è tale e quale a quello di tanti altri afroamericani. È frutto di un amore fugace tra due minorenni, un suonatore di banjo e una domestica che fa la ballerina per arrotondare.
Rimasta subito orfana del padre, musicista itinerante, la piccola Eleanora viene affidata dalla madre a una sua cugina che lavora in quel di Baltimora, Maryland. La violenza e la crudezza della vita nei margini ghettizzati della società americana non tarda a piombarle addosso nel più duro e lesivo dei modi: uno stupro subito a soli dieci anni.
Giudicata corrotta, viene chiusa in un riformatorio per un anno preparandole, di fatto, la strada verso un baratro che non lascia speranze.
Marchiata dal disonore, oltreché dalla sua condizione sociale e dalla sua appartenenza etnica, Eleanora è costretta a raggiungere la madre a New York e a darsi alla prostituzione. Una donna nelle sue condizioni non può aspirare più in alto, può giusto tirare su una manciata di soldi in più girando le case del quartiere offrendosi di lavare gli ingressi.
Verrà arrestata poco dopo, quando la polizia scoverà il bordello clandestino; rimarrà in carcere per quattro anni, sopportando sulla pelle l’ennesimo e precoce drammatico vissuto.
Sullo sfondo di questa vicenda c’è l’ottimismo rampante e la crescente prosperità degli Stati Uniti d’America, col sommerso e quasi invisibile contraltare delle condizioni liminali di grandi masse lavoratrici migranti e afroamericane.
Come colonna sonora, le suggestioni del jazz e del blues, i cui musicisti si sono spostati da New Orleans e dai contesti rurali del sud per trasferirsi nei ghetti dei grandi centri urbani. Chicago e la «Grande Mela» su tutti.
Proprio il jazz e il blues, la musica della sua gente, offriranno a Eleanora il suo biglietto verso la redenzione o, per lo meno, a qualcosa che le somigli. Ha quindici anni quando esce dal carcere e un ventaglio di possibilità per costruirsi una sua vita ancora più ristretto; di una cosa sola è certa: non tornerà a prostituirsi.
Prova a farsi assumere come ballerina in un locale notturno, ma la stoffa non ce l’ha neanche un po’. In compenso ha la voce, una voce delicata ma tremolante, per via del consumo di alcol, e tuttavia ammaliante, che ti strega carica com’è di quei vissuti pesanti e drammatici che la sua persona si trascina dietro.
In una sentenza, quella ragazza ha il blues.
Ne è totalmente pervasa, lo sa trasferire nel canto e – per logica conseguenza – in chi non può fare a meno di ascoltarla.
Viene scritturata così al Jerry Preston’s, nel ghetto nero di Harlem e nel vivo della cosiddetta Harlem Renaissance.
Siamo negli anni ’30, nel pieno del decennio d’oro del jazz. L’epicentro cittadino di Chicago ha lasciato oramai il posto ad Harlem e, successivamente, alla 52nd Street di New York. Nel ghetto prende corpo una sorta di «Parigi nera», un calderone di vizi, divertimenti e creatività nel segno del ritorno all’Africa più autentica e nigger.
I bianchi della benestante Broadway si tuffano spesso e volentieri in questo calderone a cercare qualche esperienza “esotica”, fuori dalle righe e completamente sregolata, incantati dalle big bands e in particolare dalle esibizioni di Duke Ellington.
È in questo contesto che cresce e poi emerge la giovane Eleanora col nome d’arte di Billie Holiday, che unisce il cognome del padre al nome di una grande diva hollywoodiana di quegli anni, Billie Dove.
È proprio qui che viene notata dal produttore Hammond e messa sotto contratto per l’incisione dei suoi primi singoli con l’orchestra di Benny Goodman.
Billie Holiday conquisterà New York e tutti gli allora appassionati di jazz nel corso degli anni ’30. Si fa notare con Teddy Wilson, ma successivamente avrà modo di suonare e registrare con tutti i più grandi jazzmen del momento.
Ha talento quella reietta sociale, quella ex prostituta che pareva non valere un centesimo bucato.
Ora, incoronata della sua gardenia bianca, regala emozioni, è la padrona assoluta della cinquantaduesima e le sue performance riescono vivide nel loro sostrato di “demonismo blu”.
La sua voce resta segnata dal whisky e dall’alcol, ma quando approccia il microfono e narra le storie di chi del benessere non può avere – ironia dell’etnia, oltreché della sorte – che un pallida idea, l’emozione tocca anche i più cinici.
«Lady Day» – così l’ha battezzata l’amico e compagno Lester Young – è capace di renderti blu con una sola manciata di versi interpretati come sa.
Il 1939 è l’anno di Strange Fruit che è forse il vero apice e il vero spartiacque della carriera per la Holiday. Il brano, nato dalla poesia di un militante comunista ebreo del Bronx, è una cruda denuncia delle vessazioni e delle violenze cui popolo afroamericano è ancora soggetto.
Il talento di Billie nell’interpretazione, carica di un trasporto e di una partecipazione che solo un’afroamericana in piena perdizione come lei poteva conferirle, era tale che quel solo episodio del suo repertorio poteva essere preso per una provocazione, fino e scatenare la rabbia razzista degli animi più retrivi e nostalgici dello schiavismo.
I cadaveri dei neri, gli strani frutti penzolanti dagli alberi del sud, beccati dai corvi, inzuppati dalla pioggia, marciti dal sole, strano e amaro raccolto, sporcavano la coscienza dei bianchi e facevano salire i brividi al pubblico afroamericano.
Consegnata alla fama mondiale, Billie non conoscerà mai tuttavia una vera redenzione se non negli eccessi con cui si è sempre illusa di sfuggire ai traumi e alle esperienze che le hanno segnato la vita. All’alcool si aggiungono le droghe che ora può permettersi e, conseguentemente, le attenzioni della narcotici.
I guai finanziari, la mancata coronazione di un amore (forse sognata attraverso gli schermi di Hollywood) e la perdita dei genitori fanno il resto: se questa mistura contribuisce da un lato a rendere in qualche modo sempre vivide le sue esibizioni, dall’altro la trascina direttamente al degrado fisico e psichico.
Il 17 luglio 1959 muore di cirrosi epatica al Metropolitan Hospital, sorvegliata da un agente del Bureau of Narcotics.
* * *
Pochi giorni fa, cercando sul dizionario, ho trovato che fascinazione corrisponde all’atto di affascinare, di esercitare fascino. Fascino etimologicamente viene fatto risalire al termine latino fascinum, vale a dire malia o amuleto.
Ci sarebbe dunque dietro al fenomeno della fascinazione un certo che di irresistibilmente maligno e diabolico, quasi un rito magico.
Ho ricollegato per istinto tutto questo al blues, quel genere musicale nato dai canti popolari di ispirazione profana degli schiavi afroamericani.
La sua origine va ricondotta al modo di dire inglese to feel blue che letteralmente vuol dire essere blu, ma più precisamente (per una particolare interpretazione cromatica e relativa estensione di significato) essere malinconico.
Il blues potrebbe essere dunque riassunto come un lamento, un’espressione di dolore e di frustrazione messa in musica.
Ora se è vero che blues descrive non solo un musica, ma anche uno stato d’animo – e quindi, come si dice in gergo, devi “averlo” – sarà anche assai probabile che tu debba, prima o poi, aver provato direttamente sulla tua pelle quei sentimenti e quelle esperienze di vita che lo provocano.
Quanto più il carico sarà pesante e drammatico, tanto più il tuo blues sarà sincero e, per chi avrà sensibilità, capace di affascinare.
Sembra facile messa così, ma nella realtà questa formula lineare e quasi incontrovertibile non procede necessariamente con questa fluidità.
Tuttavia esistono quei casi che non solo confermano la regola, ma che inoltre ne elevano la particolare alchimia alla massima potenza.
Non saranno forse numerosissimi, ma quando emergono lasciano un solco che attraversa i secoli.
Billie Holiday è probabilmente il risultato più eclatante e simbolico della formula di cui sopra: anche per questo merita il suo posto nella storia.
doc. NEMO
@twitTagli