Il fronte della geopolitica non potrebbe essere più magmatico: da un lato il caso siriano, che mescola la (mai tramontata) politica delle zone di influenza con il sangue dei ribelli e dei comuni cittadini, dall’altro il fantasma sempre più concreto di un’ascesa cinese capace di sfidare la superpotenza USA e l’Unione Europea al di là del mero dato economico.
La partita più importante, però, potrebbe essere quella che si sta a giocando a Kiev tra il premier ucraino Yanukovich e due pesi massimi, l’UE contro lo zar Vladimir Putin. È allora una sfida che coinvolge – tra gli alleati dell’UE – anche gli Stati Uniti, non solo in quanto storici custodi del continente europeo contrapposti alla minaccia sovietica, ma anche sul campo aperto della proprio ruolo di leadership internazionale.
La posta in gioco, infatti, è elevatissima. L’Ucraina è contesa tra l’Unione di Bruxelles e una nuova Unione, ancora in fase embrionale, sulla quale Putin sta cominciando a puntare con convinzione crescente.
Si tratterebbe quindi di una storica rivincita di Mosca, per la quale servono necessariamente nuove forze, nuovi mercati di sbocco e nuove adesioni. Ad esempio, proprio quella dei 45 milioni di ucraini, antichi alleati e progenitori della Russia moderna, senza i quali il progetto di Putin rischierebbe un precoce arenamento.È l’Unione Doganale Eurasiatica, nata nel 2010 rimasta un affare – ancora una volta – a tre giocatori: Russia, Bielorussia e Kazakistan.
L’obiettivo dichiarato? Prendere a modello il sistema economico e monetario europeo, introducendo una moneta unica e un modello unificato di relazione con gli attori economici e politici esteri.
Il motivo sotterraneo è invece quello di ricostituire un soggetto di dimensioni continentali che possa tornare a battere il pugno al tavolo dei giganti globali. Con le parole dell’ex segretario di Stato, Hillary Clinton: “Non si chiamerà Unione Sovietica, si chiamerà Unione doganale, si chiamerà Unione eurasiatica e tutto il resto, ma non facciamoci ingannare. Sappiamo qual è il suo obiettivo e stiamo cercando il modo di rallentarla o impedirla“.
Non è guerra fredda, insomma, ma poco ci manca. Ne sa qualcosa la piccola Armenia, che – raggiunti gli standard di ammissione – ha inviato la richiesta di ammissione sia all’UE che all’Unione Doganale putiniana.
Pur non essendoci riferimenti normativi che regolino queste situazioni al limite, da entrambi gli schieramenti è stata sottolineata l’impraticabilità di una partecipazione congiunta ad entrambe le comunità di Stati – che nascono proprio per definire una complessa rete di politiche comuni e non sovrapponibili agli interessi (e alle ulteriori politiche comuni) di altre conferenze di Stati.
Da una parte o dall’altra, allora. L’UE ha offerto al Paese gialloblù risparmi doganali per 500 milioni di euro, più 186 milioni per attuare le riforme costituzionali (e 510 promessi a riforme concluse), garantendo all’Ucraina le garanzie di diritto dell’Unione e – al tempo stesso – esponendo il mercato di Kiev ad un pericoloso confronto con la macchina produttiva dell’Europa occidentale.
La Russia, dal canto suo, gioca ancora una volta la carta del gas: a Yanukovich è stato offerta una riduzione del 30% del costo per migliaia di metri cubi (da 400$ a 270$), finanziamenti vari per quindici miliardi di dollari e la rimozione dei vincoli sanitari sulle merci esportate dall’Ucraina in Russia – secondo alcuni, introdotti ad hoc per costringere Kiev alla resa.
Putin si spinge ancora sul terreno delle minacce: in caso di mancato accordo il prezzo del gas salirebbe a 450$, una cifra insostenibile per le casse esangui dello Stato sul Mar Nero. Nonostante le proteste degli europeisti di piazza Maidan e la riunione dell’opposizione sotto la guida carismatica dell’ex pugile Vitaly Klitschko, a Yanukovich non è rimasta scelta se non tirare all’estremo la corda lanciata da Bruxelles (ottenendo il rinvio a data da destinarsi riguardo alla scarcerazione della Timoschenko, richiesta nella prima proposta dell’UE), almeno finchè dura la pazienza del Cremlino.
Il gas, sopratutto alle porte di un inverno rigido, è una necessità che si accompagna anche alla paura di inimicarsi un vicino potente e ben avvezzo ai ricatti.
Vince la Russia, dunque? Sì, ma perde la politica – in Europa, in America e naturalmente in Ucraina. Allo Stato di Kiev l’ingresso nell’Unione avrebbe consentito di riformare i punti più fragili del proprio ordinamento (in primis, modificare lo status para-politico della magistratura), provando la prima lotta governativa alla corruzione endemica, un tentativo necessario sopratutto dopo le larghe aperture concesse da Yanukovich alla “casta” degli estrattori dell’Est russofilo, che hanno gravato con rincari fiscali selvaggi sulla piccola e media imprenditoria.
Ma l’UE è ancora una composizione di Stati che promuovono interessi nazionali: come giudicare il silenzio di molte capitali europee (Roma compresa) sull’affare ucraino, specialmente conoscendo gli ottimi rapporti tra l’autocrazia di Mosca e le democrazie dell’Ovest?
Qui sta l’errore americano: affidarsi al partner europeo in una questione di strategia geopolitica così grave significa esporsi all’inconcludenza e agli appelli a reti unificate (ma a platea assente).
Se è vero che le campane di guerra (fredda) sono ancora lontane dal suonare, il caso ucraino è già materia di studio a Bruxelles e a Washington, sia per il successore della Clinton come per i prossimi rappresentanti europei.
L’onda democratica che ha abbattuto il muro di Berlino, se da questa parte del mondo non si può più garantire la sicurezza economica, si arresterà ancora sui libretti degli assegni di chi di democratico non ha neanche il nome.
Bentornata, URSS?
Matteo Monaco
@MatteoMonaco77
@twitTagli