La Resistenza – come praticamente tutti gli studi sul fenomeno hanno ormai mostrato – è stata un’esperienza collettiva, nazionale, spesso spontanea, trasversale ai differenti orientamenti personali, ideologici e politici.
Ad esempio, è oramai noto che il fronte antifascista non fosse costituito solo da comunisti e socialisti ma anche da altre forze politiche; allo stesso modo è oramai noto che non si trattò solo di guerra partigiana, ma anche di episodi di resistenza civile, di supporto umanitario o di forme di aiuto e assistenza di vario tipo.
Nonostante questo, ancora oggi parlare di Resistenza significa, spesso e volentieri, parlare di soli uomini, siano essi eroi, martiri, combattenti o civili.
La partecipazione e il contributo delle donne a questa esperienza vengono spesso e volentieri solo accennati, suggeriti, vagamente o sommariamente citati – si pensi alla pagina dedicata nel sito dell’ANPI.
Si risponderà: «Ma no, lo sappiamo che non erano solo uomini: c’erano le staffette». Ancora una volta si cita la cosa come un’ovvietà, quasi per un senso comune le cui pareti sono spesso affrescate con le suggestioni e le immagini de L’Agnese va a morire. Fine della questione e tanti saluti.
A molti sfugge però il ruolo cruciale svolto da queste figure: la coscrizione obbligatoria avrebbe allora impedito a qualunque uomo arruolabile di circolare liberamente, se non al rischio di essere arrestato e quindi di sottrarre forze ai partigiani.
Senza la volontà – e a volte l’incoscienza – di queste donne sarebbero state molto più difficili (se non impossibile) la comunicazione di messaggi importanti, il trasporto di armi, di medicinali, a volte anche di persone, da un centro all’altro della Resistenza.
Eppure, si pensi, alle staffette fu negato l’accesso ai ruoli organizzativi o anche la semplice partecipazione alle riunioni operative che le riguardavano da vicino.
Ma le donne della Resistenza non furono solo staffette. Si è parlato, come prima forma di intervento, di «maternage di massa»: le donne italiane allargarono agli altri, particolarmente ai soldati sbandati dopo l’8 settembre 1943, il tradizionale ruolo materno svolto nel proprio privato e cui la cultura del tempo le destinava.
Per molte non è che il primo passo al di fuori delle mura domestiche, la prima occasione per rendere aperta quella che fino ad allora poteva darsi solo come resistenza privata alle restrizioni imposte loro dal regime.
Le più intraprendenti scelgono di inerpicarsi sulle montagne insieme ai propri cari o ai propri compagni di ideali. Imbracciano le armi, combattono, alcune hanno anche gradi militari importanti nelle divisioni partigiane in cui militano.
Quando vengono catturate dai fascisti vanno incontro – come tutti – a violenze e torture indicibili, ma non sono da meno rispetto ai loro commilitoni nello stringere i denti, nel tacere informazioni preziose, nel difendere la causa fino in fondo.
Le donne partigiane però combattono su più fronti, se così si può dire. Combattono, lo abbiamo detto, contro il nemico nazi-fascista anzitutto. Si trovano però a combattere contro i partigiani stessi, partecipi anch’essi, in fondo, di una cultura che relegava la donna in casa, lontana dalla guerra e dalla politica – affari “da uomini”, si capisce.
Ne consegue un’altra grande battaglia, quella interiore, quella che nasce dalle ostilità e dalla non-accettazione subite non solo dai guerriglieri, ma anche dalla comunità civile nelle sue diverse forme (collaborazionisti, antifascisti e indifferenti): in molti non stentano a definirle puttane poiché non sta bene starsene in mezzo a tutti quegli uomini; è una scelta equivoca, scostumata.
Eppure in tutto questo la Resistenza restituisce alle donne una propria dignità poiché, attraverso questa esperienza, prendono coscienza di sé, della possibilità di una propria autodeterminazione, della necessità di esigere il rispetto e la parità che meritano per l’essersi messe in gioco, come tutti gli altri, per la libertà.
Durante le sfilate dei partigiani dopo la vittoria, di tutte quelle donne che hanno preso le armi se ne vedono poche, veramente poche.
Non sta bene far vedere che c’erano e il loro stesso ruolo attivo viene riconosciuto solo parzialmente (le fotografie che le ritraggono in tenuta di guerra, ad esempio, non circoleranno per anni).
Molte di loro vengono invitate a farsi da parte durante le celebrazioni, rischierebbero di infangare il buon nome dei redentori della nazione; molte si fanno da parte prima, seppur con rammarico, prevedendo le maldicenze nei loro confronti.
Così, mentre la mitologia della Resistenza già viene costruendosi intorno a una retorica eroica e maschile, molte di queste donne tornano da dove erano partite: nelle loro case e ai ruoli tradizionali, con l’unica preoccupazione di essere buone mogli e buone madri, magari dotate di un corredo congruo per le nozze.
La famiglia diventerà di lì a poco uno dei perni unificanti su cui ricostruire un’Italia a pezzi. DC e PCI si mettono a lavoro per aggiudicarsi il ruolo di difensori della famiglia: modelli diversi, si capisce, ma in cui il ruolo femminile resta sostanzialmente inalterato.
Lo scambio tra donne e Resistenza risulta così ineguale, con buona pace di quante di loro speravano col proprio impegno (e attraverso realtà come i Gruppi di difesa della donna) di liberare non solo l’Italia ma anche sé stesse, preparando la strada a un paese più libero e più eguale.
Non ci sarà eroismo o celebrazione del sacrificio e delle sofferenze di tutte quelle che pure c’erano e che avevano fatto la loro parte – e si parla di cifre che, stando alle ultime ricerche, superano probabilmente il milione.
Certo, ci saranno il voto e persino le prime deputate, ma le donne resteranno assenti dalla rappresentazione del fenomeno e delle battaglie della Resistenza, fatto salvo per le “Agnesi” in bicicletta.
In altre parole, nella fondazione dell’identità nazionale e statale esse saranno relegate (quando va bene) più a un ruolo di comparse che non di protagoniste vere e proprie.
Il racconto del reduce e del partigiano diventano veri e propri generi letterari, la memoria femminile resta un’anomalia, letteratura di secondo piano. Ci vorrà il trentennale della liberazione (1975) perché si inizi a riconoscere anche il ruolo delle donne e le sue specificità, complice anche il progressivo liberarsi dell’evento della Resistenza dalle ricostruzioni ispirate a logiche e ragioni di partito.
Ancora oggi parlare della loro storia e della loro partecipazione appare quasi più una curiosità, una nota di colore, che non un contenuto pienamente riconosciuto e acquisito.
In attesa che la memoria collettiva della Resistenza se ne (ri)appropri, potremmo considerare – non senza una certa amarezza – come esse abbiano attraversato nel tempo un paradossale e poco lusinghiero mutamento di ruolo: da bandite della guerra partigiana a… bandite dall’evento stesso.
doc. NEMO
@twitTagli
Fonti:
- Reading Angela e Vera, Regione Toscana – Archivio per la memoria e la scrittura delle donne «Alessandra Contini Bonacossi», Firenze, 2015.
- Le donne della Resistenza, puntata de Il Tempo e la Storia, Rai – Rai Storia, 2014.
- Liliana Cavani, La donna nella Resistenza, documentario Rai, 1965.
- Di generazione in generazione. Le italiane dall’Unità a oggi, a cura di Maria Teresa Monti, Alessandra Pescarolo, Anna Scattigno, Simonetta Soldani, Viella, Roma, 2014.
- La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, a cura di Rachele Farina e Anna Maria Bruzzone, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
- Michela Ponzani, Guerra alle donne. Partigiane, vittime di stupro, «amanti del nemico», Einaudi, Torino, 2012.
- Donne e uomini nelle guerre mondiali, a cura di Anna Bravo, Laterza, Roma-Bari, 1991.