Lo hanno già scritto tutti nell’universo conosciuto, ma è necessario ricordarlo: Avengers: Infinity War è il culmine di una programmazione di 10 anni e almeno 15 film, il coronamento e l’affermazione di un’operazione senza precedenti che ha profondamente rivoluzionato il modo di fare cinema dell’ultimo decennio.
Marvel Studios ha costruito un franchise cinematografico che è profondamente debitore ai concetti di serialità e fidelizzazione del pubblico, diventando una specie di lunga serie di episodi che escono al cinema due o tre volte all’anno.
La straordinaria vittoria strategica della Marvel consiste nell’avere trasformato l’uscita al cinema di un film come Avengers: Infinity War in un vero e proprio evento, atteso, condiviso e vissuto in comunità. In quest’epoca storica, pochissimi altri autori o studi cinematografici sono in grado di costruire una simile esperienza attorno a un’uscita nelle sale.
Non si tratta solo di una rivoluzione nel modo di produrre e distribuire film, ma anche un cambiamento di paradigma a livello di storytelling. Infinity War è un film che può permettersi di iniziare nella più grande e potenzialmente rischiosa medias res che io abbia mai visto.
Può permettersi di dare per scontato relazioni tra personaggi e intrecci sentimentali di cui non abbiamo nemmeno mai sentito parlare, ma che non soffrono più del dovuto la mancanza di screen-time. In questo senso, Avengers: Infinity War è da considerare più come l’episodio finale di una stagione televisiva che come un prodotto autosufficiente.
Andare a vederlo da “vergini del Marvel Universe” è come iniziare a vedere Lost partendo dal finale della quinta stagione.
Il rischio di non essere all’altezza delle proprie aspettative, non rispettare tutte le storie e i personaggi che si intende portare avanti e fare convergere in un unico racconto, è altissimo.
La vera questione, nel confrontarsi per la prima volta con Infinity War, è capire se e come il produttore Kevin Feige, i registi Anthony e Joe Russo e gli sceneggiatori Christopher Markus e Stephen McFeely siano riusciti in un’operazione di equilibrismo narrativo tra le più complesse e articolate della storia del cinema.
Per farla breve, la mia risposta a questa domanda è
Assolutamente Sì.
La recensione è finita, andate in pace.
Naturalmente scherzavo. Questa recensione sarà lunga come la strada verso le gemme dell’infinito, solo incredibilmente più noiosa. Io vi avverto.
Il cinema è da sempre fatto di iperboli: le parole “capolavoro” e “merda” si sprecano come caramelle, e quello che manca da sempre è la capacità di essere moderati ed equilibrati nei propri giudizi. Detto ciò: questo film potrebbe tranquillamente essere la più gratificante esperienza cinematografica dai tempi di Guerre Stellari.
Non si tratta solo di evasione ed escapismo, di luccicanti esplosioni, effetti speciali e scene d’azione dinamiche e coinvolgenti: Avengers: Infinity War è il migliore esempio di come sia possibile unire puro spettacolo a una storia fortemente “character-driven”, trainata dai suoi protagonisti e portata a casa da un bilanciamento dalla precisione millimetrica fra esigenze narrative, approfondimento dei personaggi e concessioni al più totale “appagamento” del proprio pubblico.
Per il sottoscritto, l’epitome dell’intrattenimento supereroistico era il primo Avengers di Joss Whedon del 2012: un film che mescolava cuore, pancia e cervello nell’equilibrare e gestire al meglio un cast corale di personaggi “colossali”, dando vita a un’esperienza immensamente gratificante che non ho praticamente più riscontrato nei film Marvel successivi.
Nel 2014, I Guardiani della Galassia di James Gunn alzava l’asticella rispetto ad Avengers nel mettere in scena una visione intima e personale, la storia di una squadra di “antieroi” che ti conquistava con un calore e una profonda umanità mai più replicata nei film successivi.
Nel 2018, Avengers: Infinity War perfeziona il modello di filmmaking del brand Marvel Studios al punto che è seriamente difficile immaginare come continuare questa storia allargando l’orizzonte narrativo degli eventi e alzando ulteriormente la portata dell’azione.
Il successo di questo film rappresenta forse il più grande pericolo per la fase successiva dell’universo Marvel: ripetersi è dannatamente difficile. Due climax di questa entità nel giro di due anni (Avengers 4 esce a maggio 2019) sembrano praticamente impossibili, ma la speranza è che nel prossimo film si vada in direzioni più sperimentali e alternative, invece di tentare di costruire un giocattolo ancora più grosso e imponente di questo: per citare proprio Joss Whedon, “don’t go bigger, go deeper”.
Infinity War non alzerà l’asticella soltanto per tutti i capitoli successivi della saga di cui rappresenta un culmine, ma per l’intero sistema del cinema di intrattenimento contemporaneo: la portata con la quale viene messo in scena un epico conflitto intergalattico e l’affresco di una tale moltitudine di linee narrative, personaggi e motivazioni non può essere liquidata solo come l’ennesimo film di supereroi, ma deve rappresentare un punto di riferimento tanto artistico quanto (soprattutto) commerciale.
Sembra impossibile che in 149 minuti di film compaiano circa 25 personaggi principali (mi sono messo a contarli, forse ne ho dimenticato qualcuno) e che ad ognuno sia concesso un “momento”. In mani meno esperte, un simile esercizio avrebbe significato disarmonia, cacofonia e “schizofrenia narrativa”; in poche parole, niente di più interessante di una gigantesca foto di gruppo in movimento del proprio cast di supereroi, in cui l’obiettivo della camera è costantemente indecisa su cosa mettere a fuoco.
In questo senso, i mattatori assoluti restano gli sceneggiatori Markus e McFeely, capaci di distillare 10 anni di mitologia e approfondimento di personaggi in uno script organico e accessibile a tutti, che di fatto si può sintetizzare nella storia di un dittatore spaziale alla ricerca di sei artefatti che gli serviranno per completare la sua missione.
Infinity War è uno dei rarissimi casi in cui un film della Marvel azzecca il suo antagonista, al punto che di fatto Thanos è il personaggio più interessante del film: il titano viola interpretato da Josh Brolin con la tecnica del performance capture è un maestoso megalomane la cui motivazione è tanto semplice quanto ben raccontata e interpretata, e a lui sono riservati i due o tre momenti più lirici del film. Thanos è l’elemento che in assoluto mi ha sorpreso di più, perché mi aspettavo di vedere il solito cattivone bidimensionale che vuole conquistare il mondo o poco più. Al contrario, Thanos è terrificante ma anche provvisto di una leggera “fragilità” che lo rende molto più interessante della media dei classici cattivi supereroistici.
Anche se finora non ho fatto altro che elencarne i grandi pregi, non posso dire che Infinity War sia un film perfetto: più di una sottotrama sente il peso dei tagli di montaggio, mentre una storyline in particolare, che ruota attorno alla creazione della nuova arma di Thor, avrebbe beneficiato di un po’ meno spazio.
Ma nel suo complesso, il terzo film che porta il titolo di “Avengers” rappresenta l’inizio della fine di una saga decennale di gigantesco successo commerciale e profondo impatto popolare, che si completerà l’anno prossimo con il capitolo successivo.
Infinity War è destinato ad essere ricordato come una pietra miliare, tanto nell’universo Marvel quanto nell’intrattenimento contemporaneo in generale. È impossibile ignorarne l’impatto e il “peso specifico”, in un panorama cinematografico che sempre più raramente è in grado di produrre veri e propri “film-evento”.
E, in quanto evento, Avengers: Infinity War è uno degli appuntamenti cinematografici imperdibili del 2018 e forse uno dei punti più alti che il cinema supereroistico abbia mai espresso.
Davide Mela