
Uscito dal sottosuolo a Wilmersdorfer Strasse mi ero trovato davanti a un cavalcavia anonimo. Dietro, un centro commerciale. Di lato un negozio di saponi.
Nessun accenno di una stazione della metropolitana di superficie che avrebbe dovuto esserci, eppure non si trova. “Meno male che sei tu quello col senso dell’orientamento”: la mia ragazza, senza alcuna pietà, sottolinea quello che qualunque passante può capire da solo. E cioè che quel tipo fermo impalato all’incrocio (non bastasse la t-shirt da battaglia; non bastasse lo zainetto rosso; non bastasse la guida turistica pinzata tra le ginocchia; non bastassero gli occhiali da sole; non bastasse una mappa che il suddetto gira e rigira e rigira, come se cambiarle il verso facesse apparire indicazioni fino a quel punto nascoste) è il classico turista imbranato che non sa che pesci pigliare.

Sorride, ha gli occhi allegri. Senza alcun ritegno, ci presentiamo per quello che siamo: due turisti dei più banali, guida alla mano, che sono atterrati da meno di due ore e la prima cosa che vogliono fare è vedere il monumento-simbolo, la Porta di Brandeburgo.
Siamo forse una tacca sopra a quegli italiani che chiedono determinati “Where I can eat a pizza good?”, ma nemmeno poi tanto.

Gli rispondo dopo una pausa di pochi secondi, mi serve per decidere di non avere filtri: “Perché io adoro la Germania. Mi piace tutto, di voi: i treni, le fabbriche, l’ordine, la musica, la birra, l’organizzazione. Perché a Berlino c’è il Pergamon. Perché…”.
Perché io c’ho sto chiodo fisso, del Muro. Io sono a Berlino anche e soprattutto per cavarmi i dubbi, i pensieri, i tarli – sul Muro.
Perché l’ho studiato, il Muro.
Perché sono un floydiano di ferro.
Perché mi angoscia, mi angoscia da matti ‘sta storia del Muro, e sono lì per torchiare un tedesco alla prima occasione e farmi raccontare quegli anni, e quell’anno.
Eccola, l’occasione.
Ecco, lo sapevo, sono un cretino, ho toccato il tasto dolente con la grazia di uno zappatore. Ma è la mia giornata, e il tipo non mi liquida; potrebbe trattarmi da cretinetti, ma non lo fa.
“You know…”

La Seconda Guerra Mondiale, dico. Per noi berlinesi la Seconda Guerra Mondiale è finita con 45 anni di ritardo.
Se eri a Ovest potevi girare, se eri a Est nemmeno quello, ma noi eravamo la guerra. E tutto era ancora Seconda Guerra Mondiale. Per noi nel ’45 è solo finito il Nazismo, ma non la guerra”.
C’era gente però che aveva il marito, i figli dall’altra parte. I nonni. Gente che aveva trent’anni e non aveva mai visto sua nonna, che era viva ma era di là”.
Noi sapevamo che di là c’era casino, sapevamo che stavano cambiando molte cose. Però uno nasce, cresce, vive con un certo tipo di mondo, e quindi quella sera anche se sapevamo che di là c’era casino (“troubles, and really mess”, per citarlo letteralmente) era una sera normale.
In una sera normale tu vai in birreria con gli amici”.
Perché la tv ha fatto vedere una cosa assurda: ha stretto l’inquadratura, ed uno è passato da Est a Ovest”.
Un ragazzo era passato in un buco del Muro. Però era successa un’altra cosa strana: questo qui era passato, e tutti abbiamo pensato ‘Adesso lo ammazzano’.
Invece aveva fatto due o tre passi nella nostra parte, e poi era corso via, era tornato subito a Est, capite?
Nel pub c’è silenzio assoluto, qualcuno inizia a piangere. Poi, sempre dalla televisione, vediamo lo stesso tizio uscire dallo stesso buco.
E questa volta non scappa.
Poi, da quel buco, ne salta fuori un altro”.
Voi non capite, ma in quel momento è finita la guerra. In quel momento, eravamo liberi. In quel momento eravamo di nuovo tedeschi”.
Ma quella chiacchierata sulla S7 è una delle cose più assurde, vibranti e vive nella mia memoria, in assoluto. Un perfetto sconosciuto mi aveva spiattellato la sua storia, evidenziando un bisogno viscerale di testimoniare, di comunicare quel giorno grandioso – e quindi, l’immensa sofferenza dei decenni precedenti.
Ma nei giorni successivi – lo sapevo già – non mi sarebbe capitato niente di più carnale e sanguinante di quel racconto.