Amira Hass: il muro di Israele e i malintesi di un asse di simmetria

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Amira Hass è nata a Gerusalemme ma vive a Ramallah, nel territorio occupato della Cisgiordania, sede del Parlamento e dei Ministeri palestinesi.
Amira Hass scrive – oltre che per Internazionale – per il quotidiano Haaretz, che è israeliano ma su cui lei critica il suo stesso Paese: non solo contro l’occupazione incontrollata, ma anche contraria agli accordi varati dall’ ONU che Israele porta avanti dal 1947.

L’incontro con questa coraggiosa e determinata giornalista dura due ore: fin dall’inizio, prima di affrontare tematiche politiche e astratte riguardanti i concetti di tolleranza, di responsabilià, di coraggio e di ingiustizie, Amira Hass racconta la realtà di chi vive nei territori occupati.
Inizia parlando di un’esperienza che ovunque altrove sarebbe banale: il suo viaggio per arrivare – quella stessa mattina – all’areoporto di Tel Aviv partendo da Ramallah.
Durante il percorso che la conduce al check-point, Amira nota un uomo sul bordo della strada che chiede l’autostop; è un “worker” palestinese che come tanti altri si sveglia prima dell’alba per andare a lavorare. Già, all’alba: non perchè il suo posto di lavoro sia a Buenos Aires, a Vancouver o in qualunque altra città oltre Oceano. È sempre oltre, ma qualcos’altro.
È oltre il muro.

Quello costruito nel 2002 da Israele per separare famiglie, amici, per distanziare gli “occupanti” dagli “occupati”, i lavoratori dai loro posti di lavoro e per creare interminabili code ai check-point lungo il suo corso.
Per una come Amira Hass il check-point è solo una sosta di qualche secondo, una prassi alla quale deve sottostare come tutti i residenti in territori occupati, ma essa è rapida e indolore; le permette infatti di arrivare all’areoporto di Tel Aviv senza doversi svegliare un giorno prima e senza preoccuparsi di essere bloccata per la consueta perquisizione e le domande da copione che i poliziotti di frontiera devono rivolgere a tutti i palestinesi che si apprestano ad oltrepassare il muro ogni giorno.

Amira e l’uomo, prima del check-point, hanno occasione di fare due chiacchiere: parlano dei recenti scandali di cronaca, che nel caso della Palestina è quasi sempre pure “nera”. 
Parlando di giovani vittime dell’odio tra Palestina e Israele, l’uomo rivela ad Amira di avere anch’egli perso un figlio nel settembre del 2002. Amira riflette: una settimana prima, una storia simile era nei telegiornali di tutta Israele.
La tragedia e il lutto prendono ogni giorno ospitalità in una casa palestinese, a volte con longevità, altre solo il tempo necessario a creare dolore e rabbia. La rabbia sfocia in domande, che i palestinesi si pongono con frequenza ma senza riuscire ad associarvi delle risposte.

Per esempio, perchè privare chi perde un parente in uno scontro con le milizie israeliane del suo permesso per lavorare in Israele? Un palestinese difficilmente riesce a trovare una risposta, ma per Tel Aviv questa è invece immediata, e logicamente scontata: per ostacolare il terrorismo.
Perchè si ha paura che i parenti delle vittime possano avere aspirazioni di vendetta traducibili in attacchi terroristici.
Non ci si chiede che cosa ne sarà di questi disoccupati, non ci si chiede se qualche grammo di rancore non sia forse legittimo per persone già stremate da decenni di soprusi, e in più impegnate ad affrontare un lutto nella propria famiglia.
Non ci si pone il dubbio che forse non tutti i palestinesi siano jihadisti convinti. Poche o nessuna domanda, ma solo una risposta: permesso di lavoro revocato. Si sa: “prevenire è meglio che curare”.

Molte o moltissime domande, ma poche o nessuna risposta è quanto accade al di qua – o là, a seconda del punto di vista- del muro. Per chi, come il compagno di viaggio di Amira, si è visto revocare il permesso di lavoro dopo la morte del figlio nel 2002, per riottenerlo solo nel 2013.
Undici anni dopo e grazie alla costanza e alla tenacia di un avvocato che lo ha affiancato nella sua protesta.

A chi le chiede come sia possibile che una giornalista filo-palestinese possa scrivere su un giornale israeliano ma il contrario non si verifichi, Amira risponde con la stessa sicurezza e fredda onestà usata fino a quel momento nel riconoscere le colpe del suo Paese d’origine.
La stampa palestinese non è professionale, non è coraggiosa. Ultimamente i giornali online lo sono stati di più, parlando e dando spazio anche a notizie scomode per la Palestina. Ma il problema di fondo è che i suoi giornali sono giornali di partito, i più sotto il controllo di Hamas”.
Ma ponendo questa domanda, si rivela un modo di ragionare in termini proporzionalmente diretti o simmetrici: per Amira Hass questo è sbagliato in partenza, pensare che ad X al di qua del muro deve corrispondere X anche al di là del muro.
Mi tornano alla mente le interminabili ore passate a ripetere le regole e definizioni di geometria alla mia nonna ex-professoressa di matematica: “L’asse di simmetria è una retta che divide la figura in due parti specularmente uguali.”, così dice la regola.

Il muro costruito nel 2002 però non è un asse di simmetria: non divide in due parti uguali, non divide semplicemente in due Stati; divide in due condizioni : “occupanti” e “occupati”.
Nulla di più lontano dalla simmetria.
Il muro non è un asse di simmetria, è una barriera in cemento armato alta otto metri, con torri di controllo ogni 300 metri e protezioni in reti di filo spinato; è una barriera oltraggiosa a livello etico e morale, ma anche da un punto di vista legale, dato che si spinge ben oltre i limiti fissati dalla Green Line negli accordi di pace del 1967.

Per chi non è nato in tempo per vedere il muro di Berlino, ma ha avuto la sfortuna/fortuna di vedere questo muro, è come vedere l’essere umano tirare uno schiaffo alla propria storia. A quella studiata sui libri, la stessa che molti dei sostenitori del muro hanno o vissuto sulla propria pelle o semplicemente visto vivere da altri loro contemporanei.
Anche io come i palestinesi ho tante domande (la storia si ripete sempre uguale a se stessa? I muri costruiti per dividere possono essere visti come assi di simmetria?) e poche risposte. Chissà se mai riuscirò a trovarne qualcuna.

Elle Ti
@twitTagli

Foto di copertina: “Verso l’India…

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