
Lo scandalo spionistico tra l’agenzia di sicurezza NSA e la compagnia telefonica Verizon, che sta infiammando l’opinione pubblica statunitense e macchiando di imbarazzo il secondo mandato del presidente Obama, ha rimesso sul piatto una questione antica quanto il moderno Stato industriale. Proprio mentre il soldato-delatore Bradley Manning misura le pareti della cella che lo custodirà a vita, a seguito della divulgazione di materiale confidenziale sulla guerra in Iraq sulle pagine di Wikileaks, gli Stati Uniti e il mondo intero si interrogano su due questioni centrali: chi sono le spie? E poi: abbiamo veramente bisogno di loro?
SPIO, ERGO SUM – I sistemi di intelligence, all’interno di un contesto di sovranità nazionale, rispondono a regole semplici e precise: i servizi segreti nascono con lo scopo di salvaguardare lo Stato dalle minacce interne ed esterne che possono mettere a repentaglio la sua esistenza. A partire dalla lotta alle cospirazioni eversive fino alle indagini sul terrorismo internazionale, passando per la complessa trama delle strategie geopolitiche, lo spionaggio è un’attività operata all’interno dei vincoli di segretezza – un concetto estraneo ai principi che regolano di norma la responsabilità giuridica all’interno della giurisdizione statale. Grazie anche ad un sempre più elaborato mix di tecnologia militare e di diplomazia politica, l’intelligence si presenta nei paesi avanzati come un’agenzia di elite, dotata di strumenti all’avanguardia e di uno status giuridico privilegiato.
AGENTE SEGRETO O GRANDE FRATELLO? – Come evidenziato dal caso NSA-Verizon (ma anche dalle nostrane vicende dell’Italicus e dello scandalo Telecom), il problema di fondo nasce dal concetto di segretezza. Se questo viene concepito come paravento legale per poter assicurare la stabilità della nazione, quali sono le ripercussioni sui principi che governano lo stesso sistema che si prova a difendere? Nello specifico, registrare i metadati delle telefonate di tutti gli statunitensi non viola molti principi costitutivi dello stato americano – sempre ammesso che salvare su disco rigido migliaia di conversazioni tra nonni, nipoti e coppiette sia cosa utile al bene dello Stato? Qui entra in gioco l’argomento provocatorio di molti commentatori: il segreto di Stato, utile per nascondere le proprie mosse al nemico da combattere, può essere maschera di un qualunque intento politico. Forse per uno scopo non altrettanto nobile quanto il benessere della patria, un po’ come quando Berlusconi lo ha posto sui lavori di ristrutturazione della sua villa in Sardegna. Anche qui, in ogni caso, vale la regola aurea del settore: ciò che è segreto non è dimostrabile, né in un senso né nell’altro.
CI SERVONO DAVVERO LE SPIE? – Se esiste il mistero (o quantomeno la controversia morale) sulla bontà del lavoro di intelligence, la somma degli scandali ha fatto crescere anche la domanda sulla effettiva utilità di un sistema di intelligence capace di violentare lo spirito delle carte costituzionali – specie nel caso delle democrazie occidentali. È questione di contingenze: lo spionaggio vecchio stampo, quello di James Bond, delle bionde adescatrici di Russia e della cortina di ferro ha passato il testimone alla deriva ultra-tecnologica e fluida della lotta al terrorismo, con tutto il corollario di avversari invisibili, attentati (non) sventati e paranoie di massa. Negli USA, l’11 settembre e la truppa militar-alcolica dell’amministrazione Bush hanno prodotto il Patriot Act, un atto legislativo su cui ancora oggi si arrovellano giuristi e semplici cittadini. Perché la sospensione dei diritti civili in nome di più pressanti ragioni di sicurezza – proprio nel Paese che si erge ad “esportatore di democrazia” – getta l’ombra lunga del sospetto sugli usi e sugli abusi dei servizi segreti. È una situazione di contraddizione istituzionale e ideologica che produce con facilità i problemi di attribuzione e di giudizio verificatisi, ad esempio, con il rapimento milanese del presunto terrorista Abu Omar, in un’operazione congiunta tra CIA e servizi italiani che ha messo in luce la difficoltà dei tribunali di giungere a sentenze chiare in materia.
Per questo, in una fase storica che non riconosce un nemico unico e definito (come l’URSS che fu), l’uomo della strada finisce per tifare per Wikileaks e per guardare con sospetto la CIA. Fino a chiedersi: ci serviranno davvero, questi agenti che confondono la difesa dello Stato con un incubo di controllo poliziesco che sfida le peggiori imprese di Stasi e KGB?
Matteo Monaco