Il 2016 doveva essere il mio anno, cinematograficamente parlando: non perché avessi aspettative esagerate sui film in uscita, ma perché erano previsti non uno ma addirittura due film in cui appare Batman.
“Careful what you wish for”, diceva uno che, neanche fisicamente, somigliava molto a George Michael.
Invece Batman è escluso dalla lista, e suoi exploit in Batman V Superman e Suicide Squad sono ahimè annoverabili tra le cose peggiori che mi sia capitato di vedere quest’anno.
Al contrario, nel trovarmi a scegliere i miei film preferiti del 2016, ho riscontrato una massiccia rappresentanza del genere horror e un paio di grandi ritorni: ragazzacci come Paul Verhoeven e Chan-wook Park, che nel 2016 hanno insegnato due o tre cose al resto del mondo su come si faccia davvero “cinema d’autore”.
E, a proposito di rimostranze e lamentale, devo fare una doverosa premessa prima di buttare giù la mia top 10: la sempre puntuale distribuzione cinematografica italiana non mi ha ancora permesso di vedere due film su cui ripongo grandissime aspettative, e che mi sarebbe senz’altro piaciuto inserire in classifica. I film in questione sono Arrival di Denis Villeneuve e La La Land di Damien Chazelle. Peccato, sarà per il 2017.
Infine, nel parlare di quello che è capitato al cinema quest’anno, è assolutamente impossibile non dedicare qualche momento alla memoria di grandi artisti la cui morte ha quasi scandito il passaggio del tempo nel 2016: personaggi come Carrie Fisher, David Bowie, Alan Rickman o Dario Fo, per citarne solo quattro a caso.
Nella mente collettiva sembra quasi che quest’anno sia legato ad un sentimento generalizzato di lutto o di rimpianto; e questo fornisce un’idea precisa di come siano scomparse alcune autentiche “colonne culturali” della storia del cinema.
10. HIGH-RISE, di Ben Wheatley
L’adattamento del romanzo di Ballard a cura di Ben Wheatley (Kill List, Sightseers) è un thriller fantascientifico a metà strada tra la satira e il dramma grottesco. L’estetica anni ’70 è splendida e il ritmo compassato alterna momenti onirici ad esplosioni improvvise di tensione e violenza in modo molto efficace.
High-Rise contiene al suo interno uno dei cast più interessanti del 2016 e una varietà tematica affascinante, niente affatto banale e meno fedele al romanzo di quanto ci si poteva aspettare. Quella che in mani meno capaci sarebbe risultata semplicemente la metafora didascalica del condominio come strumento di divisione in classi sociali, in High-Rise si trasforma in un pasticcio caotico, divertente e surreale che gioca sulla fragilità del concetto di comunità e ordine sociale.
9. THE WITCH, di Robert Eggers
The Witch è, oggettivamente, il miglior horror del 2016: dall’ambientazione “di frontiera”, con una famiglia di coloni americani costretta a sopravvivere isolata ai confini di una minacciosa foresta, all’eccezionale lavoro di ricerca storica fatto su linguaggio, scenografia e costumi. È anche un film solido, semplice e spaventoso nelle sue atmosfere opprimenti fatte di superstizione religiosa e streghe nei boschi.
La sequenza del “ritorno del ragazzo” è una delle più azzeccate dal cinema horror moderno, e The Witch rappresenta qualcosa di più di un prodotto di genere che gioca su temi e convenzioni classiche: è un film profondamente immerso nel periodo storico che racconta, con una fotografia e un valore produttivo generale molto sopra la media, capace di spaventare consistentemente giocando con l’ignoto e il non-mostrato.
E, oltre a tutto questo, il caprone di The Witch vince il mio premio personale di “animale brutto dell’anno”.
8. CAPTAIN FANTASTIC, di Matt Ross
Captain Fantastic è ascrivibile alla categoria “filmetti”, e lo dico con la massima ammirazione possibile: è il miglior “filmetto” del 2016, nel senso che racconta una storia super-classica con un set-up più o meno già visto, e con lo stile e le tematiche tipiche del cinema indipendente americano. Ma lo fa con un cuore grosso così, e con una serie di interpretazioni struggenti che portano avanti il racconto al di là delle convenzioni più tipiche.
La cosa più interessante del film di Matt Ross è il dibattito che apre sul tema dell’educazione e della crescita, oltre che il suo umanizzare il personaggio del protagonista, per il quale Viggo Mortensen meriterebbe un riconoscimento ufficiale anche a coronare una carriera ricchissima.
7. THE HANDMAIDEN, di Chan-wook Park
Park è tornato, in tutti i sensi. È tornato a fare grandissimo cinema ed è soprattutto tornato a casa, in Corea, dove gli lasciano fare più o meno quello che vuole.
The Handmaiden è riuscito nell’impossibile impresa di farmi appassionare a due ore e mezza di dramma storico parlato in coreano tra pizzi, merletti e vestiti d’epoca. La regia del film è qualcosa di inspiegabile, e credo di non avere mai visto scene di sesso fotografate e coreografate così bene, oltre che arricchite da una immediata empatia nei confronti delle due protagoniste.
La storia d’amore al centro del film è tipicamente coreana: strana, romantica, tenera, disturbante ed eccitante allo stesso tempo. Attorno a questa, esplosioni di virtuosismo e una storia molto più politica di quanto possa sembrare, nella quale si riflette anche sul complesso rapporto culturale tra la Corea e il Giappone di un secolo fa.
6. SING STREET, di John Carney
Il sottoscritto è un grandissimo fan del regista irlandese John Carney e della sua sensibilità musicale, che rappresenta sempre il cuore tematico dei suoi film. Da Once a Begin Again, in realtà sembra che John Carney racconti la stessa storia: personaggi più o meno sfigati che diventano una famiglia (o una coppia) grazie alla musica.
Anche se questo sulla carta potrebbe non appassionarvi, sappiate che Sing Street è anche il miglior film di John Carney: una storia di formazione semplice e maledettamente dolce, con almeno due numeri musicali da applausi e un’atmosfera anni ’80 sempre piacevole da vivere.
5. THE NICEE GUYS, di Shane Black
Dalla quinta posizione in avanti, si esce dal campo dei giudizi pseudo-oggettivi e si entra in quello del puro “amore per la materia”.
Parlo di “amore” perché mi viene complicato usare qualsiasi altra parola nei confronti di Shane Black (Arma Letale, L’Ultimo Boy Scout, Iron Man 3), uno che a poco più di vent’anni scriveva già capolavori e che nel 2016 torna con un film degno dei suoi predecessori più celebri.
The Nice Guys è un’irresistibile noir-comedy anni ’70 con due protagonisti straordinari come Ryan Gosling e Russell Crowe. Ci sono botte, pistole, tette e grandissimi dialoghi; c’è tutto quello che di buono può offrire il cinema, e nel suo campo Shane Black conferma di essere uno dei più grandi talenti viventi.
4. THE INVITATION, di Karyn Kusama
The Invitation è un piccolo thriller realizzato con due spiccioli e apprezzato soprattutto nel giro dei festival di genere: è sicuramente uno dei miei film preferiti del 2016 perché mescola due paure ataviche della mia vita come le reunion tra vecchi amici che non si sentono da tanto tempo e i culti religiosi.
È diretto da una donna (perbacco, pare che al giorno d’oggi esistano anche registe donne), tal Karyn Kusama, che ha alle spalle un paio di fallimenti ma che riesce a mettere in scena un costante senso di oppressione e una generalizzata atmosfera di inquietudine in modo tanto sottile quanto raffinato.
La “lenta cottura” degli elementi horror del film è assolutamente perfetta, e The Invitation azzecca uno dei finali più potenti che mi sia capitato di vedere da parecchio tempo a questa parte.
3. ELLE, di Paul Verhoeven
Di questo film ci sarebbe troppo da dire, per poter anche solo sperare di fare un’analisi completa.
Quello che è necessario dire è “guardatelo”, perché si tratta di una delle più complesse, magnetiche, inquietanti e intelligenti opere di un filmmaker straordinario come Verhoeven.
Isabel Huppert interpreta la protagonista in quella che è forse la più grande performance del 2016, e il film affronta tematiche come lo stupro, la sessualità e il femminismo (o il “post-femminismo”) con una capacità pazzesca di mettere in difficoltà lo spettatore, scuotere ogni certezza e scendere in profondità all’interno di un discorso tanto difficile quanto “necessario”.
È difficilissimo sintetizzare in poche righe la grandezza di Verhoeven nell’avvicinarsi a un argomento e parlarne in maniera lucida, clinica e tremendamente attuale senza dimenticarsi di costruire un grande racconto.
2. GREEN ROOM, di Jeremy Saulnier
Green Room è un horror che parla di una band punk intrappolata in un locale che è sotto assedio dai neo-nazi, ed è il mio secondo film preferito del 2016.
È un duro e puro, violentissimo spettacolo di costruzione della tensione e ferocia omicida diretto da Jeremy Saulnier, al suo secondo film dopo il già eccezionale Blue Ruin. Green Room è un pugno dello stomaco assestato con incredibile bravura, un climax ascendente di violenza e tensione nervosa che ti godi fin dall’inizio, con un ritmo serratissimo e un’intensità estremamente rara nel cinema moderno.
1. HUNT FOR THE WILDERPEOPLE, di Taika Waititi
Il mio film preferito di quest’anno è una commedia d’avventura neozelandese ambientata prevalentemente tra i boschi dell’Isola del Sud, con protagonisti Sam Neil, un cane e un bambino ciccione.
È il secondo lungometraggio da regista di Taika Waititi, simpatico guascone di professione che ha già diretto quel gioiellino di What we do in the shadows, ed è il mio preferito perché in sostanza impiega circa 10 minuti ad insegnare a Wes Anderson tutto quello che ha sempre sbagliato nella sua vita e nella sua carriera: non ci sono personaggi buffi e bizzarri in quanto tali, ma solo gag al servizio di un racconto tanto diretto ed innocente quanto assolutamente incantevole.
Hunt for the Wilderpeople è una divertentissima storia di amicizia tra un bambino orfano e un vecchio contadino neozelandese che borbotta e rifiuta categoricamente di diventare la sua figura paterna.
Oltre che Wes Anderson, siamo dalle parti di Edgar Wright per come il film riesce a creare situazioni comiche attraverso l’estetica e l’azione e non semplicemente tramite i dialoghi.
A fare da sfondo, gli incredibili paesaggi incontaminati di una Nuova Zelanda verso la quale il film è un autentico attestato di amore: un’opera piccola, indipendente e orgogliosamente kiwi in tutto e per tutto, dallo humor al desiderio di indipendenza e libertà.
Davide Mela