Nella conferenza stampa successiva alla finale (persa) di Wimbledon 2012, Andy Murray confidò alla stampa che Federer avrebbe potuto raggiungere il traguardo dei 20 Slam. Il britannico era fresco di stesa (in quattro set) e aveva forse ancora negli occhi le due meraviglie (questa e questa) che avevano in buona sostanza consegnato il match e il titolo allo svizzero.
In tutti quelli che non si chiamavano Andy Murray quelle dichiarazioni suscitarono un certo scetticismo. Che gli anni d’oro della carriera di Roger fossero ormai un ricordo era chiaro a tutti; Federer non sollevava un trofeo dello Slam da due anni e mezzo (Australian Open 2010) e sembrava competitivo ai massimi livelli soltanto sui prati londinesi. La crescita esponenziale di Nadal e soprattutto Djokovic minava la credibilità del discorso di Murray. Era difficile credere che il basilese potesse incamerare ancora tre slam.
Cinque anni e mezzo dopo, possiamo dirlo: il buon Andy capisce di tennis.

Federer ha fatto Venti in una caldissima sera d’estate d’Australia, in una partita prima dominata, poi quasi persa e infine portata a casa con la classe che contraddistingue i campioni.
Venti fa cifra tonda, ed è ovviamente un record. Per gli amanti delle statistiche, Wikipedia ha una pagina in cui sono racchiusi tutti i principali record del tennis maschile e in quasi tutte le statistiche Federer compare ai primi posti.

Alcuni di questi record sono ormai noti anche al di fuori del mondo tennistico: merito della popolarità del fenomeno-Federer e della sua capacità di trascendere le barriere di uno sport per eletti – quale è sempre stato il tennis.
Altri, invece, sono stati dimenticati, perché propri di una fase antica della carriera dello svizzero o perché forse, per apprezzarli, è necessario possedere un minimo di conoscenza specifica sulla storia di questo sport.
Ma è proprio da questi ultimi – i record dimenticati – che vorrei partire per raccontarvi chi è realmente l’Uomo di Basilea.
23 SEMIFINALI SLAM CONSECUTIVE e 237 SETTIMANE CONSECUTIVE IN CIMA AL RANKING
L’1 febbraio 2004, con la vittoria in tre set su Marat Safin, Federer conquista il suo primo Australian Open e sale in testa alla classifica Atp. Lascerà la vetta a Nadal nell’agosto del 2008, duecentotrentasette settimane dopo. In questo lasso di tempo Federer ridefinisce il concetto di dominio mostrando una superiorità fisica e tecnica che non ha precedenti in questo sport, che si traduce in uno score di 315 match vinti e solo 24 persi (percentuale del 92,9%) tra il 2004 e il 2007.
Il giocatore di quegli anni, lungi dall’essere il bizzoso adolescente di qualche anno prima, è una macchina da tennis che ha consacrato tutto il proprio talento sull’altare della vittoria. È talmente superiore ai suoi avversari che è complicato, in quegli anni, raccontare match equilibrati e spettacolo.
È il più forte, sotto ogni aspetto del gioco: da fondo, al servizio, con il dritto e negli spostamenti.
Scende poco, pochissimo a rete, ma è perché spesso il punto termina prima. Il rovescio, il colpo peggiore del repertorio, se eccessivamente stuzzicato viene protetto dall’inside-out di dritto. In ogni caso, stiamo parlando di un rovescio così.
Le 237 settimane consecutive in vetta alla classifica costituiscono ovviamente un record che migliora di ben 77 settimane il precedente: fate i conti e capirete che significa un anno e mezzo in più in cima alla prima posizione mondiale.
Ma il bello (dei numeri) deve ancora venire. Dal torneo di Wimbledon 2004, vinto in finale su Roddick, Federer inanella un filotto di 23 semifinali Slam consecutive. Ven-ti-tré.
La striscia si interrompe di fronte all’uomo del destino, Soderling, in una nuvolosa giornata di un quarto di finale parigino – una di quelle in cui lo svedese amava vestire i panni di un falegname incazzato e randellare a tutto braccio qualsiasi cosa gli capitasse a tiro.
Per apprezzare il dato, dobbiamo capire bene come funzionano gli Slam. I tornei del Grande Slam costituiscono l’elite del tennis professionistico, sono soltanto quattro l’anno:
- Australian Open a gennaio
- Roland Garros tra la fine di maggio e l’inizio di giugno
- Wimbledon a luglio
- US Open tra agosto e settembre.
Sono formati da un tabellone a 128 giocatori, con 32 teste di serie che si possono incontrare soltanto (per una legge matematica) dal terzo turno in avanti, le partite si disputano al meglio dei cinque set, per raggiungere le semifinali è necessario vincerne cinque.
La dislocazione temporale (tra gennaio e settembre) e il numero di partite necessarie (e la diversità delle superfici, tema non affrontato in questa sede) rende estremamente complicato esprimersi a un livello costante (e alto) per un arco di diversi anni in tutti e quattro i tornei.
Serve una preparazione semplicemente perfetta, sia in termini di forma fisica, sia in termini di risultati, pena l’eventuale scivolamento in classifica e la maggiore possibilità di incontrare giocatori forti nelle prime fasi dei tornei, ed essere pronti a gestire ogni situazione: dalla classica giornata no allo stato di grazia dell’avversario.
Federer vi riesce per sei anni consecutivi, doppiando il precedente record di Lendl, fermo a quota 10 (Djokovic arriverà successivamente a 14).
Il dibattito su Federer ruota ormai attorno ai 20 slam – è inevitabile. Ma a costo di sembrare iconoclasta, credo che un giorno o l’altro vedremo qualcuno superare quella soglia – o qualsiasi altra Federer riuscirà a raggiungere di qui al momento del ritiro.
In fondo, è così che funziona con i record: fissano gli obiettivi di coloro che in futuro avranno sufficiente follia e coraggio per ambirvi. Un giorno conosceremo l’uomo da 22, 24 o chissà forse 30 slam.
La cifra che difficilmente, a mio giudizio, vedremo cadere è quel 23. Da quel punto di vista Federer rimarrà semplicemente irripetibile.
5 FINALI A PARIGI
Federer e Nadal costituiscono le colonne portanti della goldenage del tennis del Duemila. Hanno dominato questo sport per oltre un decennio e, insieme a Djokovic, vinto dappertutto – più volte.

Rispetto al serbo e allo spagnolo, è risaputo come Federer ami i campi veloci, dove può far valere il suo maggior talento nel produrre situazioni di gioco offensive basate sulla rapidità degli spostamenti e sull’incisività dei suoi colpi d’attacco. È un dato di fatto che nessuno si sognerebbe di sconfessare.
In questi ultimi anni di carriera lo svizzero ha ulteriormente accentuato la sua propensione all’offesa (sportiva) mostrando molta più decisione nel praticare un gioco d’attacco e di volo.
Non va però trascurata la grandezza di Federer sui cosiddetti campi lenti. Chi si è avvicinato al tennis soltanto negli ultimi due o tre anni avrà visto primeggiare sul rosso Nadal, Djokovic, Wawrinka o magari Murray e non sa che negli anni del Dominio Federer perdeva su terra rossa praticamente solo da Nadal. A Parigi i due si sono incontrati nella semifinale del 2005 e nelle finali dei tre anni successivi (più un’appendice nel 2011), con lo spagnolo sempre vittorioso.
Negli anni abbiamo capito il perché: Nadal è il miglior giocatore di sempre su terra rossa – e per distacco.
Gli insuccessi parigini, addolciti dal trionfo del 2009, non cancellano il fatto che non sono molti nella storia del tennis coloro che possono vantare cinque finali a Parigi e che, con buona pace dei detrattori – e su questo punto ce n’è più di qualcuno – il Federer ammirato tra il 2005 e il 2011 è stato un giocatore extralusso anche sui campi in argilla.
Se cercate conferma di quest’affermazione, prego, accomodatevi.
Questo dato dà la cifra della completezza di questo ragazzo, che ha vinto il primo Wimbledon facendo serve&volley sistematico e che ha successivamente saputo adattare il proprio talento ai cambiamenti – i campi rapidi, per varie ragioni, sono andati scomparendo – e primeggiare in un tennis di fondocampisti, dove a farla da padrone erano le doti fisiche e le capacità balistiche di chi colpisce da dietro la linea di fondo.
I numeri non mentono: anche in questo Roger Federer è stato il migliore.
14 ANNI E MEZZO (AND COUNTING)

Sono gli anni di distanza tra la prima vittoria a Wimbledon (nel 2003) e l’ultima vittoria agli Open d’Australia. In questo caso l’argomento della continuità si coniuga con il concetto di longevità.
Federer è un paradosso: nell’era più fisica che lo sport professionistico abbia mai conosciuto, a segnare il passo è un uomo di 36 anni e mezzo, che compiuti i 35 anni ha portato le lancette del tempo indietro per raccogliere tre Slam e un discreto numero di altri tornei. Era dai tempi di Rosewall, nel 1972, che un giocatore così attempato non vinceva uno Slam e non metteva così tanta distanza temporale tra il primo e l’ultimo successo.
Il tennis di Rosewall era però quello delle racchette di legno, con un livello di stress fisico e di avversari incomparabili rispetto ai parametri odierni.

Non essendo noti viaggi nel tempo né formule magiche per l’abbattimento dell’età, il paradosso Federer deve essere spiegato diversamente.
Dal 2008 la narrazione su Federer assume, a seconda delle circostanze, i toni del De Prufundis o del canto di lode. Non aveva ancora 27 anni – e aveva la mononucleosi, come si scoprì qualche mese dopo – quando l’eliminazione contro Djokovic nella semifinale australiana del 2008 fu interpretata come il segno del declino ormai alle porte.
Quando Nadal, pochi mesi dopo, lo sconfisse nella celebre finale di Wimbledon, fu praticamente la fine del mondo. Erano discorsi all’insegna del catastrofismo più disinibito, ma avevano una piccolissima, probabilmente inconsapevole ragione di esistere. Come l’orologio rotto segna l’ora giusta due volte al dì, anche quelle cronache coglievano un punto: Federer non era più il miglior fondocampista del circuito.
Per uno abituato a fare incetta di vittorie, deve essere stato uno shock l’idea che qualcuno, infine, fosse diventato più forte di lui. Naturalmente l’età poteva fungere da scusante – fino alla fine degli anni Novanta i tennisti si ritiravano intorno ai trent’anni -, ma Federer è un uomo orgoglioso e forse troppo campione per accettare supinamente l’idea del declino.
A questo punto potreste pensare di trovarvi di fronte al perfetto incipit per una bella storia di sport in cui il vecchio campione, dopo un periodo di appannamento, trova nuovamente la via per il successo e per sancire, una volta di più, la propria gloria.
Le cose non stanno proprio così.
La cocciutaggine e la volontà di dimostrare che in fondo nulla era cambiato sono costate probabilmente un paio di slam allo svizzero e, più in generale, un paio d’anni di carriera che sarebbero potuti essere più ricchi di soddisfazioni – più di quanto non lo siano stati nella realtà.
In ogni caso, dal 2010 a oggi tre allenatori/mentori si sono susseguiti nel team di Federer: Paul Annacone, coach dell’ultimo Sampras; Stefan Edberg, il mito d’infanzia; e Ivan Ljubicic, amico ed ex rivale.

Ognuno di loro ha, in qualche modo, contribuito alla maturazione dello svizzero e a far crescere in lui la consapevolezza che, anche per un uomo extremely talented, l’unica battaglia impossibile da vincere è quella contro il tempo.
Il processo è stato lungo e non lineare, ma la consapevolezza che la chiave di tutto non fosse un ulteriore miglioramento nella capacità di tirare a tutta da fondo campo, ma lo sviluppo di un gioco più propositivo e rischioso, è l’unica chiave di lettura che ci permette di capire come Federer oggi non sia più forte in senso assoluto, ma certamente un giocatore migliore e più completo – direi maggiormente consapevole e padrone delle possibilità del Gioco – anche rispetto agli anni del dominio.
Ad Annacone il merito di aver introdotto nel gioco dello svizzero il controbalzo sistematico con l’obiettivo di togliere tempo e spazio alle pallate degli avversari; a Edberg quello di averlo iniziato, nel biennio 2014-15, alla pratica della rete, alle volée dopo il servizio e perfino in risposta, per accorciare la durata degli scambi. Ljubicic ha completato il capolavoro con l’ultimo passo: ha dotato lo svizzero di un rovescio-cannone, che banalmente è quello che gli ha permesso di schiantare Nadal in tutti quattro i loro incontri del 2017.
Grazie a loro Federer ha trovato la sintesi tra ciò che il tennis di alto livello in un certo senso pretende – esplosività, rapidità nei movimenti laterali, capacità difensive e percentuali nei colpi – e ciò che, per età, braccio ed esperienza Federer è disposto a fare su un campo da tennis.
Se siete giunti a questo punto, dovrebbe esservi un po’ più chiara quale sia la grandezza di Roger Federer e quale sia il posto meritatamente riservatogli all’interno della storia del Gioco.
Non è la semplice storia del ragazzo dal talento sconfinato capace di fare sempre la scelta corretta e vincente, così come non è solo quella del campionissimo a cui madre natura ha consentito di vincere sempre e facilmente.
La storia di Roger Federer è quella di un ragazzo che voleva giocare il tennis perfetto e che finiva per perdere il controllo quando non vi riusciva. È allo stesso tempo la storia di quel ragazzo conscio del proprio, enorme talento e delle trappole che questo gli creava sul campo da gioco.
È poi la storia di colui che un giorno ha compreso come fare pace con la propria arte, che ha saputo piegarla per arrivare a dominare il proprio sport come nessun altro aveva anche solo pensato di fare e che un giorno, un altro giorno, ha dovuto misurarsi con la realtà della sconfitta, proprio come diceva Kipling.
È infine la storia di un uomo che ha avuto l’umiltà e l’intelligenza per imparare dai suoi fallimenti, che non si è accontentato di ciò che avrebbe potuto ottenere anche con una goccia di sudore in meno e che ha lavorato duramente su se stesso per arrivare a essere ciò che oggi buona parte del tennis gli riconosce: the Greatest of all Time, il più grande di tutti i tempi.