Come vi dicevo (o scrivevo) nell’articolo sul cinema del 2018, quest’anno ho visto drammaticamente pochi film. Che poi con “pochi” intendo dire che ho visto 16 volte di fila Mission: Impossible perdendomi nella vasta immensità dello sguardo di Tom Cruise – e questo ha impedito che recuperassi cose un pelo più significative, come ad esempio l’intero palinsesto della Berlinale o altre rassegne simili in cui ci sono attori che fanno la faccia basita e discutono con inflessione dialettale del senso della vita: in pratica, l’intera summa della filmografia di Alice Rohrwacher.
L’altra faccia della medaglia del mio 2018 racconta invece di un sacco di televisione consumata grazie a sistemi più o meno legali: primo fra tutti Netflix, che quest’anno ne azzeccate un po’ più del solito anche se continua la sua lenta discesa verso il ruolo che presto o tardi reciterà in tutte le nostre vite: quello del “cestone di Blockbuster 4.0”. Un ruolo comodo e rassicurante, ma non esattamente di alto profilo.
Qui sotto il mio pagellone televisivo di fine 2018: in realtà non è un pagellone ma una classifica in 12 punti. Che vi devo dire, mi piaceva la parola “pagellone”.
12. Wild Wild Country e Making a Murderer – Stagione II
Uno dei grandissimi pregi del catalogo di Netflix è il posto che occupa la serialità documentaristica, un genere praticamente ignorato in Italia ma capace di creare intrattenimento di altissimo livello e persino di educare e informare il pubblico su pagine di cronaca o di storia che prima si ignoravano.
Nel parlare di questa categoria di prodotto, cito i miei due preferiti dell’anno: Wild Wild Country è un’incalzante ricostruzione della storia del celebre guru indiano Bhagwan Shree Rajneesh (Osho), la sua assistente personale Ma Anand Sheela e la comunità di fedeli nata all’inizio degli anni ’80 in una zona rurale dell’Oregon. Senza prendere dichiaratamente posizione, il documentario non separa distintamente i confini tra buoni e cattivi e offre un approfondimento inquietante e surreale sulla storia dei seguaci di Osho emigrati negli Stati Uniti e sulla biografia di Sheela in particolare.
Making a Murderer è invece tornato con una seconda stagione, che riprende le stesse tematiche della prima, l’indagine per dimostrare l’innocenza di un uomo che è in carcere da decenni per un omicidio che apparentemente non ha commesso: c’è lo stesso senso dello spettacolo e la stessa violenza emotiva della prima stagione, con uno sguardo più concentrato sul giornalismo investigativo che sul vero e proprio legal drama della prima stagione.
11. Maniac
Maniac è la classica definizione del “pasticcio d’autore”, ideato e diretto da quel geniaccio di Cary Fukunaga (True Detective – Stagione 1) e interpretato da un cast stellare.
È un melange fantascientifico che somiglia un po’ a Eternal Sunshine of a Spotless Mind e un po’ a Essere John Malcovich ma non decolla mai del tutto, seppur producendo alcuni momenti isolati di grandissima televisione.
10. The Handmaid’s Tale – Stagione II
The Handmaid’s Tale è, in poche parole, lo spettacolo televisivo più deprimente del 2018. È scritto, diretto, interpretato e fotografato molto bene e la seconda stagione mantiene il livello altissimo della prima, al netto di un paio di incertezze di storyline che sembrano girare attorno a loro stesse senza mai arrivare al punto.
È un racconto straziante e doloroso fino ai limiti dell’umanamente consentito, ma mai eccessivo o gratuito nel raccontare la storia di Offred e della nazione distopica di Gilead.
Oltre ad una monumentale Elisabeth Moss, nel cast c’è pure quella sagoma di Joseph Fiennes e la sua magnifica barba che per qualche motivo sembra sempre viscida. Qu
ando la visione di Handmaid’s Tale mi disturbava troppo, cercavo rifugio nella barba di Joseph Fiennes e mi ripetevo che in fondo andrà tutto bene.
Per noi maschi. Le donne sono spacciate.
9. Quees Eye
Queer Eye è una specie di reality show a puntate in cui 5 uomini omosessuali trasformano il caso umano di turno in un essere perfetto, in grado di interagire con il prossimo e persino avere delle relazioni sentimentali.
La struttura riprende il classico concept del “makeover show” ma ne espande gli orizzonti e permette ai suoi protagonisti di prendere completamente le redini del format, producendo contenuti che vanno dall’esilarante al commovente.
Il grande segreto dietro al successo di Queer Eye, e il suo unico vero motivo di interesse, è rappresentato dall’alchimia tra i 5 protagonisti, capaci di offrire spunti di riflessione ma soprattutto di insegnare al pubblico che le barriere culturali non esistono se si ha veramente la volontà di abbatterle, e che il dialogo è l’unico vero modo per risolvere i conflitti. Non malissimo, per uno show che parla di prodotti per capelli e avocado toast.
Mio consiglio personale: alternate la visione di un episodio di Handmaid’s Tale ad un episodio di Queer Eye.
Sarete molto confusi, ma il mondo non vi sembrerà così un brutto posto.
8. The Terror
The Terror è tratto dall’omonimo romanzo di Dan Simmons e racconta, in versione romanzata, la storia della fallimentare spedizione britannica del XIX secolo alla ricerca del passaggio a Nord-Ovest, la rotta navale che collega i mari del nord all’oceano pacifico attraverso l’arcipelago artico.
Prodotto da Ridley Scott e provvisto di un indubbio registro cinematografico, The Terror racchiude alcune tra le immagini televisive più suggestive e terrificanti dell’anno.
La produzione anglo-americana è di altissimo livello, dal grande cast alle incredibili scenografie, e l’orrore della lenta marcia verso l’agonia dell’equipaggio delle due navi è realistico e tangibile anche nella sua dimensione più fantasy.
7. Legion – Stagione 2
Il sottoscritto nutre per Legion lo stesso sentimento che il tifoso del Toro medio ha nei confronti di Daniele Baselli: a volte gli vuoi bene e ne percepisci il talento cristallino, altre volte lo vorresti picchiare per quanto è irritante; nel complesso ci sei affezionato e lo vedi che si impegna, azzeccasse tre partite di fila sarebbe il centrocampista ideale.
Legion è una serie televisiva folle e anarchica, visivamente pazzesca e completamente incapace di restare concentrata sul racconto che dovrebbe portare avanti.
È un’originalissima, complessa, ramificata, onirica immersione nella mente di un uomo schizofrenico dotato di grandi poteri psichici, all’interno della quale non fa più di tanto impressione vedere un minotauro interagire con un gruppo di automi senzienti transessuali e baffuti che indossano un tutù.
Io ne sono innamorato, ma non è per tutti: solo per chi ha molta pazienza, e desidera fino in fondo vedere uno scontro finale tra X-Men che si risolve con una gara di ballo.
6. Bojack Horseman – Stagione 5
Ve ne ho già parlato allo sfinimento, e non so cosa aggiungere se non questo: Bojack Horseman è grandissima narrazione non solo nel suo genere (il cartone animato per adulti), non solo nel suo medium (la televisione), non solo nel suo registro (la commedia surreale) ma proprio a livello letterario.
Bojack Horseman, in modo pop, stupido e volgare, parla la stessa lingua di un esistenzialista francese del secolo scorso.
So che non mi credete, ma dategli una possibilità.
5. The Marvelous Mrs. Maisel – Stagione 2
Prima di scoprirla con colpevole ritardo, ero molto scettico rispetto a The Marvelous Mrs. Maisel: un po’ perché piaceva un sacco alla mia ragazza, e la mia ragazza su queste cose ha torto a priori, e un po’ perché la creatrice è la stessa mente diabolica dietro a Una Mamma per Amica – incubo personale di troppe mie serate e vero motivo dietro all’aumento di casi di violenza domestica nell’ultimo decennio.
Invece ho dovuto ricredermi su tutta la linea: The Marvelous Mrs. Maisel è la storia deliziosa e molto divertente di una giovane aspirante stand-up comedian e della sua famiglia ebraica nella New York degli anni ’50.
La seconda stagione attraversa delle storyline inaspettate e anche un po’ insolite, fatte di lunghe permanenze fuori dall’ambientazione principale di New York.
Il cast corale resta comunque la forza trainante della serie e la scrittura dei dialoghi è sul livello dei migliori prodotti televisivi contemporanei.
4. Killing Eve
La prima stagione di Killing Eve è una delle sorprese di quest’anno, nel senso che è arrivata praticamente dal nulla, trasmessa da un network semi-sconosciuto e poco promossa sui canali tradizionali.
Liberamente tratta da una serie di romanzi, parla dello strano rapporto tra una agente governativa e una serial killer un po’ matta che le si affeziona. La serie sta a metà strada tra una cosa come Alias e una commedia degli equivoci europea ed è supportata da una regia e una scrittura molto particolari, che dipingono i tratti psicologici di un’assassina un po’ troppo “gioisamente” cattiva e una sua inseguitrice talmente assetata di verità che rischia di mettersi in pericolo da sola.
La tensione tra le due donne e le rispettive motivazioni è la cosa più interessante e “strana” che si sia vista in televisione quest’anno.
3. The Haunting of Hill House
È difficile parlare in maniera approfondita di Hill House perché si tratta di una di quelle cose “troppo belle per essere sintetizzate”. La serie horror di Netflix creata e quasi interamente diretta da Mike Flanagan è una delle esperienze televisive più spaventose, commoventi e gratificanti del 2018: possiede una profondità d’animo, una ricchezza di contenuto e una capacità di emozionare il pubblico assolutamente rara nel cinema horror, e abbina all’affresco di un romanzo familiare narrato lungo più decenni una grandissima padronanza del mezzo nell’essere in grado di “fare paura”, nel senso più profondo del termine.
Hill House è straordinaria perché fa paura e racconta la storia di personaggi tridimensionali e iconici a cui non ci si può fare a meno di affezionare.
L’episodio n. 6, “Two Storms”, è forse il miglior singolo episodio di qualsiasi serie mai distribuita nel 2018.
2. Better Call Saul – Stagione IV
Davvero Better Call Saul è meglio di Breaking Bad? Per quanto mi riguarda la risposta è quasi sempre sì, anche nella sua stagione meno convincente finora.
La quarta stagione del prequel che racconta le origini di Saul Goodman attraversa un lungo momento di stasi, che riflette il periodo di transizione vissuto dal suo protagonista, ma anche nella sua immobilità riesce a caratterizzare meglio di praticamente chiunque altro la psicologia interna dei suoi protagonisti, le loro relazioni e le loro ambiguità che esondano in un finale amaro e gratificante al tempo stesso.
Come tutte le grandi tragedie, Better Call Saul è molto divertente e provvisto di un ritmo ammaliante e del registro cinematografico a cui ci ha abituato lo show runner Vince Gilligan.
1. Sharp Objects
In un anno solare ricchissimo di grandi prodotti televisivi, la migliore serie che io abbia visto si chiama Sharp Objects: è il risultato della partnership artistica tra l’ideatrice Marti Noxon, l’autrice del romanzo da cui è tratto Gillian Flynn, il regista Jean-Marc Vallée e la protagonista e produttrice esecutiva Amy Adams, oltre che la supervisione di quel genio assoluto che si chiama Jason Blum.
Sharp Objects è una miniserie thriller che racconta l’indagine di Camille Preaker, giornalista specializzata in cronaca nera, nella sua cittadina natale nel Missouri.
È un noir di provincia che ricorda True Detective e Gone Girl ed è messo in scena con “l’occhio” e il registro cinematografico di un filmmaker straordinario come Jean-Marc Vallée, abbinato ad una capacità di scrittura di altissimo livello che valorizza il materiale originale e lo rende addirittura più potente ed efficace.
Davide Mela